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Perché l’anfora? Perché ora?

Viviamo tempi frenetici, dove il ritmo delle innovazioni tecnologiche ha superato già da un pezzo la nostra capacità di tenerci dietro. Molti di noi vivono malissimo questa situazione: culturalmente fatichiamo a capirla, (in)consciamente ne siamo  spaventati e socialmente proviamo un senso di diffidenza/rifiuto.

Per questo tutto ciò che profuma d’antico e naturale oggi ci appare così rassicurante – salvo poi ritrovarci completamente impreparati di fronte alle sfide che proprio  la Natura si mette continuamente davanti. Succede così che sempre più wine lovers accolgono con favore una novità (vecchia di 8000 anni…) come l’uso dell’anfora nel mondo del vino, argomento sul quale si è tenuta di recente a Verona anche una fiera-mercato.

Ma perché l’anfora? E soprattutto, perché proprio ora?

Da un punto di vista enologico, i produttori sono sempre alla ricerca di nuovi strumenti/modalità di fare il vino che possa consentire loro di ottenere un qualche vantaggio competitivo, in termini di qualità del prodotto e di personalità distintiva dello stesso. Come già successe con la barrique negli anni ’90, oggi sembra essere l’anfora lo strumento che può rispondere a questa esigenza, appagando al tempo stesso un bisogno tanto profondo quando perennemente insoddisfatto: la ricerca di una maggiore autenticità e di un legame più profondo con la terra. Per la sua storia millenaria, e tutto l’immaginario di significati anche simbolici che racchiude, l’anfora risponde a questo duplice scopo, pratico-commerciale e psicologico.

A queste stesse esigenze risponde però anche un altro fenomeno: la riscoperta di vitigni dimenticati e abbandonati. I quali, in molti casi, si rivelano la materia prima ideale per essere elaborata in anfora. Da un lato, questa tendenza si spiega con il solito obiettivo di creare vini più identitari, in un mondo in cui la cultura del vino è un po’ più diffusa di quanto potesse esserlo negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, quando per farti conoscere all’estero dovevi presentarti con i soliti Cabernet Sauvignon e Chardonnay. Dall’altro,  stanti le continue bizzarrie del clima, diventa sempre più pressante la necessità di cercare proprio nella Natura nuovi (vecchi) vitigni più resilienti. Riscoprirli e valorizzarli permetterebbe, così, da un lato di preservare antiche cultivar a rischio scomparsa, mantenendo viva la memoria storica e culturale del territorio (obiettivo scientifico), e dall’altro di arricchire il panorama enologico con varietà distintive e più adatte a un clima sempre più imprevedibile e ai gusti sempre mutevoli dei consumatori (obiettivo commerciale). C’è poi chi vede in questo rilancio di un certo tipo di enologia anche una sfida (ideologica, soprattutto, ma anche pratica) al progresso tecnologico, o meglio ai suoi limiti. In questo caso l’uso dell’anfora e il recupero di antichi vitigni rappresenterebbero una sorta di ribellione contro l’omologazione e l’industrializzazione del vino, nello sforzo di promuovere pratiche più sostenibili e rispettose dell’ambiente. Un atteggiamento già visto negli anni ’70 del Novecento.

Al netto delle considerazioni contingenti però, l’interrogativo di fondo rimane: perché,  in un’era altamente tecnologica come quella attuale, sembra esserci un grande ritorno d’interesse per tutto ciò che è antico e può ricondurci alle nostre radici più lontane nel tempo?

Una probabile risposta ci viene dalla psicologia. Uno dei fattori chiave è il bisogno dell’essere umano di stabilità e appartenenza, specie in un mondo in rapidissima evoluzione. Di fronte all’accelerazione dei cambiamenti tecnologici e sociali, l’uomo contemporaneo sente il desiderio di ancorarsi a qualcosa di familiare e rassicurante, di riscoprire le proprie origini e tradizioni. Di ricordarsi dove viene. L’anfora,  i vitigni dimenticati, diventano così simboli di un legame con il passato, di una continuità che rassicura l’individuo in un contesto in continua trasformazione. Non solo. Il ritorno all’antico può essere interpretato come una reazione al senso di spaesamento e di alienazione che spesso accompagna l’avanzare della modernità.

Questo fenomeno non è nuovo nella storia dell’umanità. Già nel XIX secolo, il Romanticismo aveva visto l’emergere di un forte interesse per il Medioevo e per le tradizioni popolari, come reazione all’industrializzazione e all’urbanizzazione.

Allo stesso modo, negli anni ’60 e ’70 del Novecento, il movimento hippie aveva riscoperto l’importanza delle radici e della spiritualità, in contrapposizione alla società dei consumi.

Ecco perché l’anfora, ora: nell’attuale villaggio globale ipertecnolgico, la riscoperta/esaltazione  di tecniche e prodotti tradizionali vecchi di millenni è l’ennesima  rappresentazione di un  tentativo di riconnettersi con una dimensione più autentica e genuina. Alla fine, quello che si cerca è di ritrovare un equilibrio tra presente e passato.

Nihil novi sub sole.


Fonte: https://vinopigro.it/blog/?format=rss


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