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    Il Fiano merita tempo

    Quasi mi sento inadatto a commentare un vino. Ormai sono molto più bravo a berlo, ma non per il semplice gusto dell’ebbrezza, ma per entrarvi in sintonia, ascoltarlo, cercare di penetrarne la materia, la storia, il bagaglio di natura, tempo e sapere che lo hanno plasmato fino all’istante che lo traduce al mio assaggio. Ieri sera ho incontrato uno di quegli assaggi che si staglia nella mente forse per sempre, di quei vini che piazzi tranquillamente tra i più buoni mai sentiti. Ed é successo di nuovo con un Fiano di Avellino. La prima esperienza memorabile fu con una Magnum di Marsella del 2009, già 4 o 5 anni fa. Ieri é stata una bottiglia di Rocca del Principe 2011 a folgorarmi.Un tappo traditore, imbevuto all’estremo e persino trafilato, ma alla stappatura mostrava ancora tenuta sufficiente. Verso attendendo il fluido e il suo colore, e mi rincuoro e stupisco nel giallo tenue e brillante, quasi vivo di riflessi argentei. Metto il naso al calice e mi rendo conto di essere davanti a un vino da epifanie. Descriverlo é riduttivo, rischio di fargli torto, per quanto era luminoso, vivo, pulsante, così generoso di sentori tanto nitidi quanto fini, eleganti, capaci di mescolarsi, sovrapporsi, scomparire per lasciare posto al successivo e poi riproporsi al sorso, ogni volta leggermente diverso, ogni volta deciso in un allungo potente ed elegante, senza sbavature di alcol, senza note amare, eppure così penetrante, così vibrante di un’acidità buona e diffusa in tutta la sua trama.Sbuffi di mare, poi di roccia, di agrume giallo di lime, pompelmo, arancia bionda, poi miele di acacia, biscotti alla cannnella, babà al rhum, albicocche fresche, ananas, erbe aromatiche (su tutte il rosmarino, ma anche il mirto) e ricordi balsamici, di cera d’api. Ti stacchi dal calice e presto senti l’istinto di avvicinarlo ancora, al naso e alle labbra, a raccoglierne gli umori come in un bacio da innamorati.Il Fiano ha bisogno di tempo, di pazienza, di rispetto, che ripaga con immense bellezze da gustare e fare risuonare dentro, come un mantra, come una canzone alla vita, come un sogno ancora vivo al risveglio. Che non vuoi scordare e alla fine non puoi proprio.

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    Romagna, il dovere di distinguersi

    “amo i tuoi no
    come il panedella vita
    zappo e sudo
    per avere fagioliti somigliala terrache richiede sudoree volontàma io mi faccio la zappala vanga e se non bastarivolto la terracon le mani”[da “Fior di calanco” – Franco Brusa]
    Mi piaceva questa poesia per introdurre il prosieguo delle riflessioni sulla Romagna del vino. Pensieri nati a margine di un’altra serata organizzata da Francesco Falcone in questo progetto di racconto/confronto sull’attualità del vino romagnolo, coinvolgendo attorno ad un tavolo del Quartopiano Suite Restaurant di Rimini ogni volta una rappresentativa dei produttori più rappresentativi in regione.
    Nella situazione proposta da Francesco i produttori si mettono a nudo, a confronto, onestamente, presentando i propri vini ai colleghi, parlando senza timori del proprio modus operandi. E nella nauralezza del discorso che automaticamente ne scaturisce emergono le diverse anime del vino, il sentire e le esperienze di percorsi differenti, le prospettive, le idee, le considerazioni. E non ultimo si assaggiano insieme i vini, scoprendo le tante espressioni di un territorio ampio quanto variegato, le varie declinazioni dei vitigni, autoctoni e non. Si ampliano gli orizzonti, si lavora, divertendosi. Si ha l’impressione di seminare, e farlo con garbo e fiducia. Nella chiosa della serata Francesco ha suonato una sorta di incitamento, una presa di posizione che condivido. In Romagna i vignaioli si devono distinguere: credere nel proprio potenziale, nelle proprie vigne, una volta che ne ha compreso le doti (pregi e difetti compresi). Serve coraggio e pazienza, entusiasmo e attenzione. Serve restare immersi nel flusso del vino, senza farsi guidare dalle mode ma all’opposto senza essere anacronistici. Serve non avere vergogna di mostrare i propri colori e metterli in risalto, piuttosto che uniformarsi ed appiattirsi a gusti dettati dall’esterno.
    I vini assaggiati:
    Costa Archi – Le Barrosche 2018. Vino bianco da uve montuni, varietà autoctona quasi scomparsa. Francesco lo ha definitio giustamente un vino di fibra: sapido, vinoso, con accenni di idrocarburo, agrumi e anice stellato. Sorso corrispondente e tenace, con nervo e tannino a centro lingua. Per tensione e struttura ricorda il greco, nerboruto e saporito.
    Villa Venti – Famoso 2019 “Orangione”. Vino oggi conservato in baginbox, nato per caso, da una partita di vinacce svinate, che lasciate in un contenitore scolmo hanno iniziato a fermentare grazie al tanto succo ancora presente. Le uve del famoso, aromatiche, sottoposte a questa macerazione e fermentazione spontanea tirano fuori note di panettone, scorza d’agrume, condito da accenti ossidativi. Il sorso ha polpa, calore, sapidità, tannino fine, chiusura quasi piccante. Non ha grande slancio e si ferma un po’ a centro bocca, ma è un risultato curioso e interessante per le possibili declinazioni del vitigno.
    Fondo San Giuseppe – Ciarla 2019. Il vino forse più i”in fasce” della serata, attualmente schiacciato dal passaggio in barrique nuove per il 50% del vino. E’ un riesling comunque nitido nella sua forma, agrumato e floreale. Bocca un po’ contratta, ma sicuramente interessante in prospettiva.
    Podere dell’Angelo – Landi 2018. Rebola Colli di Rimini. Rebola declinata in chiave bordolese (fermentazione e affinamento in tonneau), con bella tensione al sorso e segno boisé al naso. Uve tenute una notte in frigo a 5 gradi dopo la raccolta, operazione che esalta i profumi di frutto dolce tropicale, di banana, ananas, maracuja, con una nota linfatica di fondo. Bevuta fresca e saporita, dal finale scalpitante. Peccato un filo di pesantezza nel sorso, un po’ frenato.
    Lisa Masini, collaboratrice di Francesco Bordini presso Villa Papiano, ci ha portato un proprio vino, ottenuto da uve coltivate in una vecchia vigna ad alberello in Predappio Alta, presumibilmente di moscato giallo. Uve diraspate e pigiate a piede, una parte a grappolo intero, e dopo due giorni svinato e fermentato in damigiana. Brillante nel suo colore di oro giovane, aromatico con note resinose, quasi da luppoli esotici. Agrume e timo limonato fresco, tante sfumature aromatiche che si susseguono, per un sorso sapido, secco, pulito e saporoso nel finale, senza pesantezza né note amare. Lisa rivela talento e curiosità, ci regalerà belle cose in futuro.
    Fondo San Giuseppe – Téra 2019. Un vino che disegna in modo limpido le potenzialità del trebbiano in Romagna, specie se da piante vecchie (25 anni per le piante di trebbiano della fiamma e 40 per quelle di un clone locale) ed in terreni vocati come quelli di Valpiana. Naso di terra e sasso, con sottili note di fiori freschi. Ma il sorso è la sua forza, con tensione, ritorno salino profondo, lunghissimo, ficcante. Ridare dignità ad un vitigno troppo bistrattato.
    Vigne dei Boschi – Borgo Casale 2007 magnum. Paolo Babini ci stupisce con una vecchia annata, per sondare le potenzialità dei bianchi romagnoli davanti all’affinamento in bottiglia. Al naso difficile collocarlo in Italia, più facile trovare assonanze con la Loira. Le uve vengono da due vigne vicine ma che maturano a 20 giorni di distanza, per questo vinificate separatamente. Una dà freschezza e una nota verde, l’altra frutta matura, ma entrambe le masse affinarono due anni in tonneau esausti prima dell’assemblaggio. Vino sorprendente, elegante, profondo, saporito, esente da note terpeniche ma generoso in ricordi linfatici, accenti minerali, frutta gialla, spezie. Da provare!
    Tre Monti – Albana Vigna Rocca 2019. Passiamo al mondo dell’albana, sempre provvido di nuove sfumature. I fratelli David e Vittorio Navacchia, titolari di Tre Monti, nella loro storia hanno cambiato stile sull’albana, anche coraggiosamente, arrivando oggi a questa versione, con uve macerate al 100%, per 20 giorni, utilizzando una quota di uve passite e lasciando circa 7 grammi di zucchero residuo. Naso appena rustico, note da whisky e albicocca piena. Potenza e sapore nel sorso, con ritorni di erbe aromatiche. Succoso e piacevole, molto coerente con una visione tradizionale dell’albana.
    Tre Monti – Vitalba 2019. Una quasi estremizzazione dell’albana è questo vino, nato anni fa dal progetto che ha coinvolto tanti produttori romagnoli nell’utilizzo di anfore georgiane. In tal caso le uve macerano senza alcun controllo per 90 giorni, dopo i quali avviene una prima svinatura per un immediato ritorno in anfora. Il colore è poco più pieno, di ambra, il naso più centrato su aromi di miele, resina, corteccia. Il sorso mostra una potenza controllata, con un finale sapido, asciutto, col tannino a pulire un piccolo residuo che qui quasi non si percepisce. 
    Ca’ di Sopra – Romagna Albana Sandrona 2019. Un’altra coppia di fratelli talentuosi, Camillo e Giacomo Montanari, curano vinificano le proprie uve coltivate sui colli di Marzeno, sulla destra orografica dell’omonimo torrente. Sono terre di argille e calcare, al limite dei calanchi. Da pochi anni hanno creduto nelle loro piante di albana, piantate nel 2003. Ed i risultati, dopo continue prove e messe a punto, sono più che confortanti. Ora lasciano macerare il 20% delle uve per una settimana, Naso è terragno, di pompelmo e limone stramaturo, e al sorso mostra tutto il suo essere albana, con pienezza, stratificazione, tannino piacevole. Ancora giovane, con accenti di balsami e resine. Ennesima prova del carattere così cangiante e comunque così riconoscibile dell’albana.
    Dell’Angelo – Fulgor 2019. Un sangiovese da terre riminesi, dove spiccano note alcoliche e qualche riduzione, insieme a note di legno ancora in evidenza. In bocca scalpita, nervoso, con legno in evidenza nel finale di bocca. Vino da tratti selvatici e imperfetti, ma con discreta materia sotto. Il più sfocato dei rossi in degustazione.
    Bissoni – Romagna Sangiovese Superiore Girapoggio 2018. Questo è forse il rosso più spigliato di Raffaella Bissoni, viticoltrice appassionata e attenta agli equilibri naturali della sua azienda sin dagli esordi, negli anni 90. Il vino anche in questo caso rivela una nota foxy, selvaggia, ma anche di bosco e radici. Le vigne sono trentennali piantate su terreni di sabbie marine sedimentare e spungone, che lasciano la loro traccia sapida nel finale, insieme a un tannino dolce e accenti speziati. 
    Noelia Ricci – Romagna Sangiovese “Il Sangiovese” (la vespa) 2018. Efficace il lavoro di Marco Cirese, che ha rimodulato l’azienda di famiglia, improntandola ad una valorizzazione del territorio, selezionando i migliori vigneti e cercando di trarne vini slanciati e saporiti, più votati alla gastronomia che a collezionare punti nei concorsi. Qui il vino è appena in riduzione, ma rivela un frutto vivo, un sorso nervoso, teso, piccante, che scalpita e scalda nel finale, con un tannino fitto seppur molto fine. Uve da vigne tra 250 e 340 metri di quota, su sabbie e arenarie, con zone calcaree nelle parcelle più alte. Fermentazione e affinamento avvengono in acciaio. Bicchiere gustoso e fine.
    Noelia Ricci – Romagna Sangiovese Predappio Godenza 2018 (la scimmia). Sempre solo acciaio come contenitore di affinamento, ma con una macerazione sulle bucce di qualche giorno più lunga, come pure l’affinamento in bottiglia, di un anno in più prima di uscire, rispetto a “La Vespa”. Frutti e fiori scuri, con sfondo di sasso. Scorre fresco, equilibrato, con maggiore trama e sapore. Una marcia in più, anche in termini prospettici. 
    Costa Archi – Romagna Sangiovese Serra GS 2015. Beviamo in anteprima questo vino di Gabriele Succi, che uscirà solo nel 2021. Naso impressionante, davvero da grande vino: incenso, resine, spezia, cannella, origano, ciliegia, ferro. Il sorso è asciutto, sanguigno, succoso, dolcemente agrumato. L’ennesimo vino che scompagina canoni e preconcetti. Viende da una vigna giovane, piantata nel 2009, alla sua prima annata (buonissima) nel 2011. Originariamente produsse un grappolo per pianta, e doveva confluire nell’Assiolo, ma si distingueva, e Gabriele lo tenne da parte. La vigna peraltro è posizionata in basso, in zona quasi piana, su argille rosse con inserzioni calcaree. Diraspatura delicata, quindici giorni di macerazione, con follature manuali, poi svinatura e passaggio in tonneau esausti, dove resta tre anni per poi fare massa in cemento, senza chiarifiche né filtrazioni. Questo vino è figlio di due raccolte e due rispettive vinificazioni (su un campo di 4000 mq), i cui vini sono stati assemblati solo al termine dell’affinamento in legno. Un vino da comprare “en primeur”. 
    Pertinello – Pinot Nero 2019. Dalle prime impressioni di febbraio ad oggi questo vino ha fatto grandi passi, che ho provato sulle mie papille. Ora il naso è un misto di aromi boschivi e carne, con accenti di agrume scuro. Segna un nuovo corso dei vini di Pertinello, con l’aiuto e la voglia di sperimentare di Francesco Falcone, che affianca Filippo Leoni nelle scelte di cantina. In questo caso uve prese solo dalla vigna nuova, del 2016, con fermentazione spontanea in barrique esauste, con un 25% di uve a grappolo intero. Ancora in fase interlocutoria, si concede con cama all’aria, ma al palato mostra toni scuri, suggestioni di chinotto e radici, finale sapido e tannino sottile.
    Villa Venti – A 2018. Vino prodotto in quantità ridotte, di 3000 bottiglie, corrispondenti al contenuto dell’unica anfora georgiana utilizzata per questo rosso unico, da uve centesimino vinificate lasciando per 6 mesi gli acini interi nel contenitore. I profumi sono molteplici e cangianti, tra note erbacee di aromatiche, carne, tempere, rosa canina, frutti rossi. Il sorso rimane snello e fresco, diretto, franco, succoso. Versione davvero imperdibile di un vitigno non facile da gestire, qui declinato in maniera elegante ma affatto lontana dalle sue peculiarità.Pertinello – La Memoria di Pertinello. Vera chicca della cantina, unica uscita che unisce tra diverse annate di sangiovese vendemmiato tardivamente e vinificato in botte scolma. Per gli amanti del Vin Santo un perla imperdibile: fresco, tenace, note ossidative che virano su cortecce, tabacco, resine, scorze di agrumi, il sorso è asciutto, saporito, invitante, con residuo contenuto, scorrevolezza invidiabile.. Ancora un esempio di come in Romagna si possano produrre vini sublimi, magari osando e sfruttando condizioni particolari.Pertinello – Il Giglio di Pertinello, Albana Passito 2019. Vino che sfrutta anche l’acidità di una piccola quota di riesling vendemmiato tardivamente, e su entrambe e uve gode della complessità regalata dall’attacco della muffa nobile.  Affinato in damigiana, fa perno attorno a una volatile alta, che ne alleggerisce anche la beva, trascinando i profumi di fiori, agrumi, spezie, e riportandoli anche al sorso, mai stucchevole anzi dinamico e condito dal tipico accento tannico del vitigno, oltre che da una bella vena sapida. Bissoni – Albana Passito 2016. Altra bella declinazione dell’albana versione passito, questa volta da terreni su base di spungone, e con spirito più “sauterneggiante“. Qui in questa annata la botrytis ha colpito il 100% delle uve, e la caratterizzazione è netta. Si distinguono dolci note di pesca gialla e melone, vaniglia, albicocca, poi camomille e cenni di zafferano. Il sorso è avvolgente e ricco di sapore, quasi piccante per l’insieme ben fuso di calore, sale, acidità e velo tannico. Una coccola. Gli assaggi hanno confermato le ipotesi. Distinguersi diventa un dovere, davanti a un territorio così sfaccettato per le possibili combinazioni di luoghi, uve, umanità. Cioè non bisogna avere timore di mostrarsi diversi, né doverlo apparire a tutti i costi. Serve forse prendere coscienza di quello che si ha per le mani, valorizzarne l’unicità e non vergognarsene. In tanti questa strada sembrano averla imboccata, i vini parlano chiaramente. L’auspicio è che si continui dal lato dei produttori, che si allarghi il movimento di chi propone questa varietà di colori, da chi mesce e vende vino, e non si abbia paura di scoprire la diversità, sul fronte dei consumatori.
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    Idee di una nuova Romagna

    Per essere sinceri, nel mondo del vino, la Romagna sono ben in pochi a conoscerla, e altrettanto rari sono quelli curiosi di scoprirne le potenzialità ed i vini di qualità che se ne producono. Complice l’impatto pachidermico delle grandi realtà cooperative, l’immagine della regione è svilita al palato del consumatore medio, che guarda con distrazione e disinteresse ai vini romagnoli.
    Se da una parte il vino industriale che esce dalla regione ha l’immagine del liquido diluito, anonimo e omologato, dall’altro una grossa zavorra è venuta dai piccoli produttori di collina che inseguendo (anche giustamente, con criterio e buoni risultati) le mode degli anni ’90, hanno dato l’immagine di vini rossi potenti e troppo spesso offuscati da un uso prepotente o mal gestito dei legni.
    Alcuni virtuosi hanno saputo crescere e mettere in discussione i propri vini, adeguandosi non solo al mutare dei gusti, ma anche alla necessità di lasciare esprimere le potenzialità e peculiarità dei territori romagnoli che – perBacco! – esistono e lottano tra noi, nelle bottiglie dei tanti volenterosi che provano ad emanciparsi, restituendo alla Romagna un’identità, ma ancor prima una dignità vinicola.
    Inoltre si sta configurando una nuova branca di giovani produttori coraggiosi – perché per mettersi a fare vino in Romagna ci vuole coraggio (o forse un certo masochismo) – che arriva sul mercato con idee contemporanee, con buoni propositi e voglia di confronto.
    Il confronto e la collaborazione sono forse gli elementi che più spesso sono mancati alla storia del vino romagnolo, combattuto tra campanilismi, celolunghismi e rivalità infantili. Ma negli ultimi anni fortunatamente qualcosa si sta muovendo in senso contrario, e tanti vignaioli iniziano a parlarsi e unire le forze e gli sforzi per una comunicazione più incisiva del buono che si fa in Romagna. Non bastasse questo è giunta l’idea di Francesco Falcone, amico degustatore e penna ispirata, da sempre attento alle sorti della mia regione, divenuta sua patria adottiva. Il suo nasce come progetto editoriale: un libro su “La Nuova Romagna“. Questo nuovo progetto vuole essere un racconto delle nuove voci che si fanno portatrici delle idee più contemporanee della scena regionale, con espressioni vinicole in grado di incuriosire e soddisfare i bevitori più smaliziati, ma anche di allargare gli orizzonti del consumatore medio. Un’indagine sul campo per scovare i bagliori di luce in un panorama ancora pieno di ombre. Un censimento delle identità enoiche da tenere in considerazione oggi e nel prossimo futuro. Un lavoro che coinvolge direttamente le aziende, chiamandole al confronto.
    Così grazie alla complicità dell’amico maître Fabrizio Timpanaro e all’ospitalità del Ristorante Quartopiano di Rimini, si va articolando in questi mesi un ciclo di incontri con e tra i produttori di Romagna. Con Falcone a moderare, stuzzicare, incalzare, i vignaioli presentano il loro lavoro ad una tavolata di colleghi, cui si aggiungono appassionati bevitori, in un confronto che possa essere il più possibile ampio e non autoreferenziale.
    Lo scopo e l’auspicio collimano nell’innesco di un movimento virtuoso, di una presa di coscienza di quello che di buono c’è e di ciò che si può migliorare per ambire a ritagliarsi un posto di rilievo nel panorama del vino.
    Martedì 7 luglio scorso sono stato partecipe di uno di questi incontri, e l’atmosfera era davvero positiva. Di ogni produttore abbiamo esplorato un vino, per poi accedere ad un secondo campione a fine serata, in libertà individuale.
    Erano tanti i produttori che conosco personalmente da anni, ma altri ho avuto il piacere di scoprire in questa occasione. Diversi di questi appartengono al territorio riminese, come i Fratelli Cecchini di Valle delle Lepri, Matteo Dini di Villa Ottolune, Andrea Pasini di Fattoria del Piccione, Loretta e Vittoria Pesaresi di Delle Selve, oltre a Davide Bigucci di Podere Vecciano (che già ben conoscevo).
    E da queste terre si può iniziare a dire che un’identità si riesce a trovare in vini bianchi sapidi e polposi, con un potenziale ben espresso nella rebola (grechetto gentile), che qui si fa tramite in “un’unione tra mare e terra” (citando una frase che ho trovato molto azzeccata del giovanissimo Andrea Pasini), unendo il sale del primo alla trama solida della seconda. Ma questi tratti si sono ritrovati anche nel bianco Erretre di Delle Selve, da uve sauvignon blanc vinificate in maniera naturale, senza controlli di temperature, e così scevro da sentori pirazinici.
    Altresì il sangiovese merita attenzione in questi luoghi, con frutto ben evidente, anche se occorre tenere a bada gli eccessi di maturazione. La cosa è perfettamente riuscita nel Vigna Rocca 2019 di Podere Vecciano, succoso ed espressivo, con frutto fresco e trama gentile e saporita. Una bella materia era anche nel Marnoso 2017 di Villa Ottolune. Peccato per un’impronta decisa dei legni piccoli, un po’ anacronistica, che copriva una materia sottostante gustosa ed interessante.
    Sangiovese che mostra forse la migliore espressione di un percorso intrapreso 20 anni fa da Stefano Gabellini, è il P. Honorii 2016, nitido negli aromi di frutti scuri, ficcante ma fine nel tannino, dinamico e già godibile, con piacevoli echi balsamici che iniziano a palesarsi. Bella espressione di Bertinoro Riserva.

    Una scoperta folgorante per me sono stati i vini di Pian di Stantino, realtà davvero unica nel suo genere. Andrea Peradotto, enologo con diverse esperienze in regione e fuori, ha deciso di tornare nel suo paese di origine, Portico di Romagna, ultima appendice appenninica del forlivese lungo la valle del Montone, per iniziare le sue vinificazioni in proprio. Lo ha fatto andando a scovare piccole parcelle sparse nei comuni montani limitrofi, su terreni a quote ormai inusuali per la viticultura romagnola, con vigne allocate dai 400 ai 700 metri. Micro-vinificazioni singole con fermentazioni spontanee in legno, lavorando uve rosse a prevalenza sangiovese, ma con presenza di altri vitigni minori storicamente presente nei vecchi vigneti. Lunghe macerazioni sulle bucce, fino a 2 mesi, e poi sosta in cemento per qualche mese. Il Ridaccio 2019 è un vino montano davvero imperdibile, aereo e leggero, dal colore trasparente e vivo, succoso di frutti rossi freschi e condito di note di scorze di agrumi ed erbe aromatiche. Tannino sottile, fine salinità finale. Sorso irresistibile. Più austero il Pian 2019, più solido e scuro nei tratti, ma sempre innestato su uno scheletro agile e dinamico.
    Altro rosso degno di nota è il Pinot Nero 2019 di Pertinello. Realtà storica in una splendida zona appenninica, dove le vigne si mischiano ai boschi nell’alta Val Bidente. Qui dall’annata 2019 il titolare Moreno Mancini ha accolto tra le sue file Francesco Falcone, che mette la sua esperienza negli assaggi e nella realizzazione dei vini. Qui ispirandosi ai confronti intrecciati con Staderini e Tommasi (tra i migliori interpreti di questo vitigno in Italia) si è cercato di seguire una strada borgognona, con vinificazione in legno, con uso parziale di grappolo intero, e fermentazioni spontanee. Il risultato, da poco in bottiglia, è già intrigante, con bel frutto appena coperto da note di propoli e pellame, sorso con graffio tannico invitante e polpa fresca.

    Ho tenuto per ultima l’albana, vitigno quasi scomparso, anima non facile da gestire in vigna come in cantina. Vino che può fare innamorare o intimorire. E’ spesso considerabile un rosso travestito da bianco, per via delle componenti tanniche delle sue bucce. Ne abbiamo assaggiate due versioni capaci di fare ricredere i più scettici sul vitigno (e ne abbiamo avuto esempi diretti tra i presenti alla serata). Il MonteRe 2016 di Vigne dei Boschi (aka Paolo e Katia Babini), è un’albana di montagna, coltivata in alto tra i boschi di Valpiana su terre marnoso-arenacee. Vinificata e maturata in tonneau usati (di 8 anni), mostra eleganza e profondità, tensione acida unita a sapore, agrume e fiore, un cenno tannico sottile che la completa. Da una vigna vecchia sita in Terra del Sole invece il Madonna dei Fiori 2018 di Marta Valpiani, vinificata in mastelli per poi essere messa a maturare in cemento. Ha ben definito il frutto di albicocca fresco, cenni di erbe e fiori, sorso serio, nervoso, giocato su un traino acido-sapido che ne scolpisce uno scheletro solido e capace di riempire il palato con una presa terragna e felice.
    Insomma, di cose interessanti ne abbiamo bevute e altrettanti ce ne siamo dette. E non finisce certo qui
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    Un verdicchio con aria nuova

    Potrei parlare di un Verdicchio che l’aria quasi non la conosce, la va a cercare ed incontrare solo appena stappato. E’ così che va a finire la storia di Bianca, ultima etichetta nata in casa dell’azienda Socci di Castelplanio, in concomitanza con la venuta al mondo della piccola Bianca (in carne ed ossa), nipotina di […] LEGGI TUTTO

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