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Valtellina, la levità del nebbiolo

La Valtellina è una zona che non può che incuriosire il bevitore smaliziato, come chi si sta appassionando al vino e ai suoi territori. Perché già la sua valle si pone come un’anomalia geografica, col suo correre da est a ovest parallelamente alle Alpi, scavando una valle che origina due versanti montuosi opposti anche per vocazione. Quelle affacciate sul nord (versante orobico) sono ombrose, fredde e vuote, spazzate da correnti alpine, improbabili per una agricoltura efficace. Le pareti volte a sud, sul versante retico, sono invece irradiate dai raggi solari e adatte alla coltivazione, che qui si è dedicata alla vite. Scelta ardimentosa, scelta estrema, di strappare terrazze a quelle ripide pareti, talvolta riportandovi materiale argilloso dal fondovalle per costituire un sottile substrato per mettere a dimora le piante, che poi si vedono costrette a sfoderare la loro tempra naturale e affondare le radici nella roccia viva di questi monti. Viene da chiedersi perché l’ostinazione umana abbia portato a questo monumentale lavoro di “costruzione” dei vigneti, oggi costituiti da circa 2550 km di muretti a secco, che reggono terrazzamenti collegati da ripide scalinate (chiamate tsappel), lungo pendii che raggiungono il 70%. Forse le condizioni climatiche comunque favorevoli invogliarono le genti locali all’impresa. Le precipitazioni piovose sono contenute, con 850 mm annui (contro una media nazionale di 739 mm), e la valle riceve correnti mitigatrici dal lago di Como, dove l’Adda, che corre nel fondovalle, va ad affluire. Inoltre fortuna (o intelligenza umana, ancora) volle che si piantasse nebbiolo, che qui si chiama chiavennasca, e nel tempo ha selezionato caratteri certamente peculiari e differenti dai biotipi coltivati ad esempio in Langa o in Alto Piemonte. Questo mix di storia, architettura rurale, agricoltura e cultura umana, si traduce oggi in un panorama unico, da preservare e conservare, così come questo luogo conserva oggi i nebbioli dall’identità più lieve ed eterea, purtroppo svilita dalle versioni Sfursat, che ne omologano le caratteristiche sottili e delicate, plasmandole con l’appassimento.

Questo è stato l’incipit della degustazione guidata da Armando Castagno in quel di Predappio (nell’ambito della Tre Giorni del Sangiovese), ovviamente tradotto nel mio ricordo e nelle mie parole, più incerte e meno nobili di quelle del nostro relatore.

Ma queste sono di quelle degustazioni che meritano un racconto, un ricordo, una diffusione, al di là dei numerosissimi presenti. Perché al di là del piacere dell’assaggio, abbiamo approfondito l’essenza di un territorio, dei vini che lo identificano, che ne sono sincera e trasparente espressione, senza alchimie né artifici.

Parliamo di nebbiolo, e potrebbe scattare scontato il paragone con le altre zone dedite a questo nobile vitigno. Ed in ognuna troviamo differente nei suoli madre, ognuno fondamentale a plasmare le caratteristiche finali dei vini. In Langa i terreni sono marnosi, alcalini, costituiti quindi da antiche sovrapposizioni compatte di argille e calcare, suoli completi e ricchi. Nel vicino Roero aumentano decisamente le quote sabbiose (sabbie astiane, fortemente fossilifere). L’Alto Piemonte è un mosaico complesso, dove a Boca e Gattinara dominano i porfidi, di origine vulcanica, mentre a sinistra del fiume Sesia, nelle zone di Ghemme, Fara e Sizzano, troviamo morene e conglomerati di sassi e cemento argilloso, che originano vini più robusti. A Lessona incontriamo sabbie marine, nelle zone basse del Bramaterra aumenta la presenza calcarea. E’ a Carema invece che troviamo matrice alpina, la cui roccia è in prevalenza gneiss, come appunto in Valtellina. E’ pietra originata dal compattamento di granito e diorite, e qui la presenza di calcare è nulla, caratteristica determinante per l’acidità, molto più alta, e per il rischio di intossicazione delle piante, in quanto gli altri metalli si legano al calcare, se presente, ed in sua assenza restano in forma libera, quindi facilmente assimilabili dalle piante. I terreni in Valtellina sono spesso ricchi di scheletro, fortemente sabbiosi (70%), con buona presenza di limo (18%) e argille a completare. Sono terreni molto drenanti, caratteristica che dissipa i problemi di umidità anche dopo forti piogge, ma facilmente manda in stress le piante, che sono costrette ad avere radici profonde, non trovando riserve idriche negli strati superficiali.

Della Valtellina è bene ricordare le 5 sottozone, ognuna capace di distinguersi nel calice. Da ovest a est: Maroggia, Sassella, Grumello, Inferno e Valgella.

Maroggia consta di 25 ha, divisi tra due “proprietari”, di cui uno è una cantina sociale (quindi costituita da tanti piccoli frazionamenti); è la zona più calda, maggiormente investita dalle brezze calde sospinte dal lago di Como, e quindi la prima a vendemmiare. Origina i Valtellina più teneri e meno intensi.

Sassella è una vera e propria rupe di 144 ha (130 vitati), soleggiata ma impervia, dai 300 ai 400 metri di quota, con proprietà molto frazionate fra tanti produttori. Vi nascono vini classici, sottili e longevi, caratterizzati da decisa rabbia minerale (espressione magnifica).

Grumello: area di 78 ha, posti da 350 a 450 mslm, e qui si trova la maggiore concentrazione di vecchie piante di vitigni autoctoni (pignola, rossola, brugnola) in mezzo ai filari di chiavennasca. Si ottengono vini di minore intensità ma di una bellezza olfattiva che si avvale di nitida vena floreale, di glicine ed iris. In genere paiono austeri da giovani, con balsami e spezie, spesso, con bocca piena e completa, meno sapida dei Sassella.

Inferno. Luogo panoramico, impervio, ricco di appezzamenti piccoli, in un labirinto di scale, composto da 55 ha vitati sui 68 potenziali. Dà vino caldo, profumato, speziato, minerale e longevo. La rifrazione del sole su pietra, praticamente senza humus superficiale, si traduce in vini di maggiore alcol, che tendono nel tempo a terziarizzare ma senza cedere all’ossidazione.

Valgella. Zona meno famosa, e per questo meno rivendicata dai produttori. E’ la propaggine più vicina alla Svizzera e per questo storicamente dedicata a vini diretti al loro mercato. E’ un’ampia striscia di 140 ha, disposti su piccole valli minori, su pendii che arrivano anche a 500 metri.

La DOCG Valtellina Superiore, nasce nel ’68, e prevede 90% minimo d nebbiolo, ma non tanto per consentire l’uso di varietà internazionali in taglio, quanto per tutelare proprio la presenza di vecchie piante di vitigni autoctoni minori che è facile incontrare in mezzo ai filari. L’affinamento minimo è di 24 mesi (36 per i Riserva), di cui 12 almeno in legno. Nota singolare del disciplinare è quella che contempla l’idoneità alla denominazione per i soli vigneti su terreni declivi e brecciosi, ovvero sassosi, a rimarcare la limitazione a quei vigneti storicamente scavati nella montagna. La resa massima è fissata a 80 q.li per ha, ma la media usuale si attesta sulla metà.

Arriviamo davanti ai calici con tutte le indicazioni per goderli con rinnovata consapevolezza, curiosi ed anche un po’ assetati. E l’eleganza multiforme di questi Valtellina ci ha emozionato e trasportato in quei paesaggi raccontati, in quelle atmosfere rarefatte, in quell’aria montana che affonda nella pietra.

Maria Luisa Marchetti, Sant’Eufemia 2014, Valtellina Superiore Valgella. Fiore, gelatina di frutti rossi, pepe, un approccio fresco al naso, che si conferma al sorso, succoso, dal tannino sottile, un accento metallico, il finale sapido iodato, acidulo e agrumato. Riassaggiato dopo i successivi mostra la sua snellezza quasi scarna, e il suo nerbo verde, ma mantiene il suo slancio affilato in bocca. Azienda di soli 3 ettari, gestita da moglie e marito dal 2000. Bella l’etichetta, che riporta simboli apotropaici, che si dipingevano nei sottotetti come “scacciaspiriti”, di origine pagana, ma che curiosamente si ritrovano anche nelle volte delle chiesette sulle Alpi Retiche.

La Perla (Marco Triacca) – La Mossa 2012, Valtellina Superiore (Valgella) . Lavanda, mirtillo, radici, rabarbaro e genziana. Tannino acceso, piccante, più rustico, figlio di annata calda, e pur venendo dallo stesso territorio di prima, fiori e frutto prendono tratti più evoluti, con note di cuoio e spezie orientali, appena resinoso, con affascinanti suggestioni di Borgogna e Alto Piemonte, con chiusura di agrume rosso e un cenno amaricante di radici ed erbe.

Ar.Pe.Pe. – Fiamme Antiche 2012, Valtellina Superiore Inferno Riserva. Naso che regala una ricordo dolce di cioccolato, poi pepe, un ricordo di cassetto polveroso, liquirizia. Tanto per far crollare i pregiudizi di alcuni (se ancora qualcuno ne avesse a riguardo), questo vino fa 54 giorni di macerazione sulle bucce, poi 2 anni di botte da 50 hl, e quindi 3 anni in bottiglia. Il risultato è un tannino sottilissimo, puntiforme, felpato. L’Inferno porta meno aromi ma più avvolgenza, una finezza salina di fondo, e ritorna sulla rosa canina. Non offende nulla in bocca, che esce grata di questo sorso. Ricordi finali di grano saraceno, mattone e tabacco. Autunnale.

Boffalora – Pietrisco 2014, Valtellina Superiore Sassella. Qui comprendiamo appieno il temine rabbia minerale, con questo sbuffo di polvere da sparo, di roccia spaccata. Al palato esplode, come l’uva che scoppia in bocca, con spezia, frutto, quella nota di cerino che torna, si mischia all’arancia amara, potente e sapido, dal tannino fitto. Sorso che non molla mai, davvero incisivo, anche al riassaggio. Vigoria minerale e profondità di bocca tridimensionale.

Cooperativa Triasso e Sassella – Sassi Solivi 2013, Valtellina Superiore Sassella Riserva. Qualche numero: 30 conferitori, 35 giorni di macerazione, 2 anni e mezzo di botti enormi, per un’annata di alte acidità. Naso stretto, sa di sasso, ribes, melograno. Il sorso è un succo di roccia, con tannino sottile, cuoio e liquirizia, tannino microscopico, regala frizione all’assaggio, e torna su arancia, terriccio e sottobosco. Affilato e saporito, confermando la “mineralità” di questa sottozona.

Alfio Mozzi – Grisone 2013, Valtellina Superiore Sassella . Ruggisce di radici e roccia, genziana, menta, alga, acciuga, pepe. Davvero intenso ed espressivo, esplode con frutto dolcino in bocca, forse emulsionato dalla mallolattica, mirtillo e ribes nero che salgono in primo piano. Traccia sapida scura, ammiccante all’ingresso, serio in chiusura. Nel finale esce liquirizia nera e cenere, a dimenticare il frutto nero maturo dell’ingresso al palato.

Fondazione Fojanini – La Castellina 2010, Valtellina Superiore Sassella . Felce, carruba, pietra e pepe. E’ difficile descrivere certi vini, quelli che in un assaggio non danno solo aromi e sensazioni tattili, tirano fuori una sensazione che va oltre, che è una suggestione mentale. Qui è una suggestione crepuscolare, ricordi di fiori secchi, in bocca vive di luce soffusa, è un incontro privato, è una lettera letta in penombra. Frizione di agrume, cuoio, giglio, polline, ricorda certi Chianti vecchi, con un accento metallico lieve, insieme a un ricordo vivo di ciliegia. Vino commuovente.

Alberto Marsetti – Le Prudenze 2009, Valtellina Superiore (grumello). Liquirizia e iris tipici della zona. Annata calda, che si palesa in presenza alcolica e traino aromatico, di menta e balsami. Sorso di ritmo serrato, tannino soffice, dolce, ritorni di erbe e spezie dolci. Vino gourmand, fascinoso nella sua avvolgenza, elegante e sfaccettato.

Mi immagino la luce che batte su quelle pareti, bacia le ultime uve e riverbera sulle foglie, riflette sulle rocce del terreno, sollevandone l’odore, in questo inizio autunno. Ripenso a questi vini e non vedo l’ora di rincontrarli sulla mia tavola. E mi viene voglia di farmi conquistare ancora dalla levità della chiavennasca, del nebbiolo che guarda solo a sud e mangia rocce alpine. In quel luogo c’è una magia, è per quello che han deciso di piantare vigne sulle montagne, e nei vini più virtuosi quella magia trapela, infiltrante e saporita, succosa ed eterea, soffiata e sussurrata, per chi ha orecchio fine per sentire, e per chi ha sete di buono, da sanare.


Fonte: https://www.iltaccuvino.com/category/regioni/feed/


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