More stories

  • in

    Perché l’anfora? Perché ora?

    Viviamo tempi frenetici, dove il ritmo delle innovazioni tecnologiche ha superato già da un pezzo la nostra capacità di tenerci dietro. Molti di noi vivono malissimo questa situazione: culturalmente fatichiamo a capirla, (in)consciamente ne siamo  spaventati e socialmente proviamo un senso di diffidenza/rifiuto.Per questo tutto ciò che profuma d’antico e naturale oggi ci appare così rassicurante – salvo poi ritrovarci completamente impreparati di fronte alle sfide che proprio  la Natura si mette continuamente davanti. Succede così che sempre più wine lovers accolgono con favore una novità (vecchia di 8000 anni…) come l’uso dell’anfora nel mondo del vino, argomento sul quale si è tenuta di recente a Verona anche una fiera-mercato. Ma perché l’anfora? E soprattutto, perché proprio ora?Da un punto di vista enologico, i produttori sono sempre alla ricerca di nuovi strumenti/modalità di fare il vino che possa consentire loro di ottenere un qualche vantaggio competitivo, in termini di qualità del prodotto e di personalità distintiva dello stesso. Come già successe con la barrique negli anni ’90, oggi sembra essere l’anfora lo strumento che può rispondere a questa esigenza, appagando al tempo stesso un bisogno tanto profondo quando perennemente insoddisfatto: la ricerca di una maggiore autenticità e di un legame più profondo con la terra. Per la sua storia millenaria, e tutto l’immaginario di significati anche simbolici che racchiude, l’anfora risponde a questo duplice scopo, pratico-commerciale e psicologico. A queste stesse esigenze risponde però anche un altro fenomeno: la riscoperta di vitigni dimenticati e abbandonati. I quali, in molti casi, si rivelano la materia prima ideale per essere elaborata in anfora. Da un lato, questa tendenza si spiega con il solito obiettivo di creare vini più identitari, in un mondo in cui la cultura del vino è un po’ più diffusa di quanto potesse esserlo negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, quando per farti conoscere all’estero dovevi presentarti con i soliti Cabernet Sauvignon e Chardonnay. Dall’altro,  stanti le continue bizzarrie del clima, diventa sempre più pressante la necessità di cercare proprio nella Natura nuovi (vecchi) vitigni più resilienti. Riscoprirli e valorizzarli permetterebbe, così, da un lato di preservare antiche cultivar a rischio scomparsa, mantenendo viva la memoria storica e culturale del territorio (obiettivo scientifico), e dall’altro di arricchire il panorama enologico con varietà distintive e più adatte a un clima sempre più imprevedibile e ai gusti sempre mutevoli dei consumatori (obiettivo commerciale). C’è poi chi vede in questo rilancio di un certo tipo di enologia anche una sfida (ideologica, soprattutto, ma anche pratica) al progresso tecnologico, o meglio ai suoi limiti. In questo caso l’uso dell’anfora e il recupero di antichi vitigni rappresenterebbero una sorta di ribellione contro l’omologazione e l’industrializzazione del vino, nello sforzo di promuovere pratiche più sostenibili e rispettose dell’ambiente. Un atteggiamento già visto negli anni ’70 del Novecento.Al netto delle considerazioni contingenti però, l’interrogativo di fondo rimane: perché,  in un’era altamente tecnologica come quella attuale, sembra esserci un grande ritorno d’interesse per tutto ciò che è antico e può ricondurci alle nostre radici più lontane nel tempo? Una probabile risposta ci viene dalla psicologia. Uno dei fattori chiave è il bisogno dell’essere umano di stabilità e appartenenza, specie in un mondo in rapidissima evoluzione. Di fronte all’accelerazione dei cambiamenti tecnologici e sociali, l’uomo contemporaneo sente il desiderio di ancorarsi a qualcosa di familiare e rassicurante, di riscoprire le proprie origini e tradizioni. Di ricordarsi dove viene. L’anfora,  i vitigni dimenticati, diventano così simboli di un legame con il passato, di una continuità che rassicura l’individuo in un contesto in continua trasformazione. Non solo. Il ritorno all’antico può essere interpretato come una reazione al senso di spaesamento e di alienazione che spesso accompagna l’avanzare della modernità. Questo fenomeno non è nuovo nella storia dell’umanità. Già nel XIX secolo, il Romanticismo aveva visto l’emergere di un forte interesse per il Medioevo e per le tradizioni popolari, come reazione all’industrializzazione e all’urbanizzazione. Allo stesso modo, negli anni ’60 e ’70 del Novecento, il movimento hippie aveva riscoperto l’importanza delle radici e della spiritualità, in contrapposizione alla società dei consumi.Ecco perché l’anfora, ora: nell’attuale villaggio globale ipertecnolgico, la riscoperta/esaltazione  di tecniche e prodotti tradizionali vecchi di millenni è l’ennesima  rappresentazione di un  tentativo di riconnettersi con una dimensione più autentica e genuina. Alla fine, quello che si cerca è di ritrovare un equilibrio tra presente e passato.Nihil novi sub sole. LEGGI TUTTO

  • in

    Millennials, GenX e il loro rapporto con il vino (2a parte).

    Nel post precedente, si parlava di e-commerce del vino. Non c’è dubbio che, tra le due categorie – Millennials e GenX – sono soprattutto i primi ad avere maggior dimestichezza con gli strumenti e l’ambiente digitale. Lo trovano così naturale che non hanno nessun problema a comprare online perfino vini che non hanno mai assaggiato. Perché? Semplice: perché Amazon li ha abituati così. Ti serve una grattugia? Vai su Amazon e la cerchi, te ne mostra a dozzine: guardi le foto, i prezzi, poi ne scegli una e leggi la descrizione. E decidi se comprarla o meno.Lo stesso procedimento avviene con la vendita del vino online: avrà successo se le schede-prodotto saranno fatte a regola d’arte. I Millennials vogliono schede descrittive, che faccia loro immaginare quale gusto potrà avere quel Nero d’Avola o quel Chianti Classico. Qui la conoscenza di tecniche SEO può fare la differenza tra successo e fallimento. Più informative, dettagliate  e suggestive saranno le descrizioni dei vini, più probabile sarà l’acquisto. Le note descrittive di un vino dovranno abbondare ovunque nel web: nel sito dell’azienda, nel wine shop, nei canali social. La prima fonte d’informazione di questi consumatori è il web, trascurare la comunicazione digitale significa giocarsi le vendite, che – repetita iuvant – saranno sempre più online, e non solo negli USA. L’unica cosa che si può tralasciare di scrivere in queste schede sono i dettagli tecnici: ph, residuo zuccherino, lieviti selezionati o indigeni, con FML svolta oppure no sono cose che interessano solo ai Baby Boomers (e ai wine critics). Questa familiarità con Internet ha però come rovescio della medaglia  il fatto che i Millennials, a differenza dei gruppi di età che li precedono, non sentono la necessità di andare alla scoperta dei luoghi del vino: a loro basta aprire un browser sullo smartphone, digitare  “Paso Robles+winery+CA” per trovare  tutte le informazioni che cercano. E se ancora non bastano s’informano presso amici e parenti. La visita in cantina perciò, l’enoturismo, diventa una scelta ben precisa. La meta per una giornata di relax e divertimento. Inoltre,  schiacciati come sono tra cure genitoriali (di figli piccoli) e parentali (di genitori anziani), Millennials e GenX sceglieranno soprattutto quelle cantine in grado di  far star bene un po’ tutti: giovani e anziani, bambini e wine lovers. Per le aziende, questo significa re-inventare l’accoglienza, trovando per la visita nuovi motivi d’interesse (e nuovi modi di promozione del vino) che non escludano nessuno, nemmeno chi non può bere (per ragioni di età o di salute).Insomma, questo tipo di consumatori non si mostrano tanto confusi, intimiditi o disorientati dalla complessità del mondo del vino: ciò che continuiamo a interpretare come timore o senso di personale inadeguatezza (“il vino è troppo complicato e difficile per me”), è in realtà semplice disinteresse per come viene proposto.I Millennials, i GenX, fatte salve le solite eccezioni, non vogliono essere “istruiti”, scolarizzati  sul vino (come si fa, come si beve, da dove viene, che storia ha, ecc. ecc.): la solita narrativa non ha nessuna presa su di loro.Morale? O cambiamo la narrazione,  o cambiamo target di consumatori. Da qualunque parte si decida di cominciare, qualcosa va assolutamente cambiato. Conclusioni: – smettiamola di dire che M e GenX non bevono vino. Non è vero, lo bevono più spesso di quello che si pensa e soprattutto non solo non sembrano avere intenzione di diminuire il loro consumo, ma non hanno paura di spendere. Inoltre, nonostante siano consapevoli che il vino contiene alcol e zuccheri, continuano a considerarlo più salutare di altre bevande alcoliche (all’interno di un adeguato e coerente stile di vita).Anziché limitarsi ad aspettarli sulla soglia delle cantine, è il mondo del vino che deve andare incontro ai suoi consumatori, facendosi trovare (fisicamente) in tutte quelle occasioni, anche le meno tradizionali, in cui le persone si trovano per rilassarsi, divertirsi, star bene con gli amici. Ovviamente, è ormai data per scontata anche una presenza attiva online. Per fidelizzare consumatori per loro stessa natura infedeli, diventa di cruciale importanza costruire con essi una solida relazione. Occorre investire tempo, soldi e risorse umane nella figura di un Virtual Brand Ambassador, una persona che sappia interagire con le persone ogni giorno, in più canali e su più piattaforme, adeguando contenuti e tone of voice a ciascuna di esse (Tik-Tok parla una lingua diversa da Facebook, tanto per dire, e si rivolge a pubblici diversi).L’online è il presente e sarà sempre di più anche il futuro. Delle vendite, del customer care, delle relazioni, del servizio. Sottovalutarlo  (procrastinandolo al mese del mai nell’anno del mai più, come in genere si fa con le cose del mondo digitale) potrebbe finire per compromettere il futuro dell’azienda stessa.In questa veloce disamina dei principali risultati emersi dalla ricerca di WineGlass Marketing su tendenze e atteggiamenti di consumo nel vino di GenX e Millennials, ci siamo concentrati su quelli che possono essere problemi condivisi anche dai produttori di vino italiani, tralasciando altri aspetti (gestione della tasting room, wine clubs) di impatto forse minore (numericamente), almeno per adesso. Per chi fosse interessato a conoscere nel dettaglio questa ricerca, la può richiedere qui. LEGGI TUTTO

  • in

    Vendemmia 2023: annata difficile, ma qualità soddisfacente

    Una qualità delle uve in generale soddisfacente (ma non eccezionale), con complessive in leggero aumento rispetto al 2022 per i principali vitigni e areali produttivi (visto anche l’entrata in produzione di nuove superfici vitate), in un’annata caratterizzata da frequenti precipitazioni e da difficoltà di gestione dei vigneti a causa dello sviluppo di malattie fungine. Eventi grandinigeni particolarmente violenti hanno però causato in alcune zone perdite di prodotto.Circa l’inizio della vendemmia, a oggi si registra un ritardo di circa una settimana, perciò (in Veneto, almeno) i primi grappoli di Pinot grigio ne Chardonnay per le basi spumante non verranno staccati prima della prossima settimana. L’uva Glera del Prosecco verrà raccolta a partire dal 15 settembre seguita a ruota da Merlot (17) Corvina (20) e Garganega il 25 settembre. Queste in estrema sintesi le anticipazioni di Veneto Agricoltura, espresse durante il tradizionale focus pre-vendemmiale.Di seguito altri dati emersi durante la giornata, di cui si può trovare il resoconto completo qui.“Sempre di più – ha detto Nicola Dall’Acqua, direttore di Veneto Agricoltura, in apertura del focus – dovremo affrontare tematiche relative a eventi meteorologici estremi: si ripresenteranno annate siccitose come il 2022, o annate particolarmente piovose come quest’anno. Problema principale di questa annata sono state le malattie fungine, a cui i viticoltori hanno saputo rispondere bene, con ottimi risultati, grazie a trattamenti sempre più mirati e precisi. Per questo in Veneto si attendono rese produttive in leggero aumento, così come la produzione complessiva, anche per l’incremento delle superfici vitate.”I dati previsionali quanti-qualitativi della vendemmia 2023 che sono stati presentati agli operatori vitivinicoli hanno riguardato tre Paesi cardine della viticoltura europea e mondiale: Italia, Francia e Spagna, con focus particolare sul Veneto e un approfondimento sulle altre principali regioni italiane.I fattori comuni che hanno caratterizzato, praticamente ovunque, l’annata vitivinicola in corso sono stati le frequenti precipitazioni e una maggior presenza di malattie fungine, che hanno inciso certamente sulla produzione vendemmiale nel Veneto, ma anche nelle altre aree vitivinicole, per un’annata che viene definita da più voci come “difficile”.Tuttavia, laddove queste problematiche sono state affrontate con professionalità ed efficacia, le rese produttive non dovrebbero subire particolari variazioni e, anzi, dovrebbero aumentare leggermente, mentre la qualità delle uve dovrebbe mantenersi su livelli buoni-ottimi.“Gli elementi che hanno caratterizzato l’annata finora sono stati l’instabilità climatica e le frequenti precipitazioni, anche a carattere grandigeno, e l’alta pressione delle malattie fungine, peronospora su tutti e in particolare nei vigneti a conduzione biologica” ha sottolineato Patrick Marcuzzo del Crea VE di Conegliano nel suo intervento, per poi entrare nel dettaglio dei dati raccolti da un panel di tecnici e agronomi delle più importanti cantine e produttori del Veneto.“Nelle aziende che applicano la difesa integrata, i danni causati dalla peronospora sono stati nell’ordine del -5/10% di perdita quantitativa, mentre nelle aziende che applicano il metodo di coltivazione biologica tali perdite sono state superiori, per lo più comprese tra il -10/20%. Superiore al 2022 anche l’incidenza di altre fitopatie come il mal dell’esca e la Botrite, mentre la Flavescenza Dorata ha avuto un incremento meno significativo. La grandine ha colpito duramente diversi areali produttivi, con perdite della produzione che hanno raggiunto anche il -20%”.Nonostante tutto, grazie a una maggiore fertilità delle gemme e un maggiore ingrossamento degli acini (grazie alla pioggia che quest’anno non è mancata, diversamente dal 2022), ci si attende un aumento delle rese produttive per la maggior parte delle varietà in tutte le province.Le previsioni di produzione perciò si aggirano sui 15,9 milioni di quintali di uva raccolta in Veneto, in crescita del +5/6%. La vendemmia invece avrà un ritardo di 5-10 giorni rispetto agli anni precedenti, a seconda delle varietà. LEGGI TUTTO

  • in

    Il valore delle vecchie vigne maritate

    Quante sono le vecchie vigne (old vines) nel mondo? Di preciso ancora non si sa, ma esiste un registro per contarle, ed è in continuo aggiornamento. Oggi, alle 18.30 ora italiana, in collegamento via Zoom sarà possibile, a chi è interessato all’argomento, seguire il lancio ufficiale di questo progetto di caratura internazionale, ascoltando gli interventi di alcuni dei maggiori esperti mondiali di vigne antiche. Valore storico a parte, cosa posso darci e dirci, oggi, vigne ultracentenarie? E se sono, addirittura, maritate, e ancora in attività? A Montefalco sono numerosi i produttori che ancora vantano di possedere alcune di queste piante, e tutti ne parlano con una sorta di religioso rispetto. Chi le ha, le cura e le protegge come farebbe come un tesoro di famiglia, e da quelle piante ricava il vino più importante, o qualche selezione particolare; chi non le ha si guarda intorno, nella speranza di individuarne ancora qualcuna orfana di un proprietario, come se alla sua produzione mancasse irrimediabilmente ancora qualcosa. In un’epoca come l’attuale, in cui si parla di viticoltura di precisione, affidata ai rilevamenti di sensori in campo, droni e satelliti, che contributo possono dare questi retaggi di un passato agricolo sempre più lontano? Detta in altre parole, quali possono essere i principali motivi che oggi portano tanti produttori di Montefalco a cercare di fare ancora vini  da queste viti, che appaiono agli antipodi delle attuali tecniche agronomiche?“Credo che ci sia ancora molto da studiare e da capire, molto più di quello che si pensa”. Devis Romanelli, dell’omonima azienda di Montefalco, è uno dei produttori che può vantare qualche vigna maritata. La sua è una realtà a conduzione famigliare nata nel 1978, che tra vigneti e oliveti conduce in regime biologico 30 ettari di proprietà, cercando con ogni mezzo di essere per l’ambiente un motivo di benessere, e non di pericolo o di disturbo. Un vigneto bio è un ambiente molto ricco di insetti, ma le potature non permettono di costruirvi nidi: per questo tra le sue vigne Devis ha collocato una serie di casette (di varie dimensioni e caratteristiche), così che uccelli grandi e piccoli siano incoraggiati ad abitarle. Un esperimento che finora sta dando ottimi risultati (e che aiuta a tenere sotto controllo le eventuali infestazioni di insetti dannosi). La sua vigna maritata è di una varietà a bacca bianca, il Trebbiano Spoletino, da cui ricava il suo “Le Tese”: uno dei migliori bianchi che si possano trovare in questa terra famosa (finora) per i rossi. L’annata che abbiamo assaggiato, la 2021, di un giallo dorato, ha profumi fruttati- floreali di mela Golden matura, melone, ananas, albicocca, gelsomino, il tutto sfumato di erbe dell’orto (rosmarino in primis). In bocca è coerente: ricco, lungo e molto fresco. Un vino che, a detta dello stesso Devis, deve molto alla sua vigna.Spiega Romanelli: “La risposta produttiva delle viti maritate con l’ acero campestre (parlo di queste perché sono quelle che ho io) è sorprendente sia in termini di produzione (100-150 kg di uva ciascuna), che di maturazione delle uve, soprattutto considerando il grande carico di uve per producono. La consociazione tra diverse specie vegetali non è certo una novità, ma negli ultimi anni sta tornando in voga, soprattutto negli orti domestici. Qui la consociazione tra diversi ortaggi da’ dei risultati straordinari in termini di produttività e difesa dai parassiti. Per questo, oltre al loro valore storico, possiamo pensare di avere dalle viti maritate anche benefici in termini di produzione e qualità delle uve. Possiamo perfino prenderle ad esempio in alcune situazioni estreme”. A cosa ti riferisci? “Tanto per fare un esempio, penso alle criticità legate ai colpi di calore, che nelle annate più calde e siccitose affliggono i vigneti messi a spalliera. In questi vigneti le uve più esposte al sole possono essere letteralmente “cotte” dalle radiazioni solari. In questo caso, il naturale ombreggiamento dei grappoli è favorito dall’ acero campestre, che crea una sorta di cappello sopra alla vite. Inoltre, sotto la chioma dell’albero le viti sono meno soggette alle gelate. Recentemente ho trovato un articolo in cui si spiegava come soprattutto l’ acero campestre fosse in grado di ospitare sulla sua chioma una grandissima quantità di fitoseidi (acari molto utili alla difesa della vita), che poi scendevano fino alla chioma della vite, colonizzandola. Inoltre – prosegue Romanelli – è interessante notare come le radici di vite e acero riescano a convivere nel medesimo spazio senza mai darsi fastidio. Anche nelle annate più secche, una più superficiale (acero) e l’ altra più profonda (la vite), riescono ad avere una simbiosi perfetta. Insomma – conclude – c’è ancora tanto da scoprire, ma credo che lo studio di questi sistemi di consociazione possa essere utile. E chissà, potrebbe addirittura essere di ispirazione per nuovi modelli di viticoltura, che nei prossimi decenni dovremo per forza sviluppare per adattarci ai cambiamenti climatici”. LEGGI TUTTO

  • in

    Dove la viticoltura del Nord Est?

    Un ritardo medio di inizio vendemmia di 8/10 giorni rispetto allo scorso anno; uno stato sanitario delle uve ottimale (al momento), ma un calo complessivo della produzione di circa il -10%, con punte anche superiori in alcune aree colpite da pesanti grandinate e dalle gelate tardive di aprile. Per il Veneto si parla di – 12%, per il Trentino -8%, per la provincia di Bolzano -10%, per il Friuli -18%. Nonostante questo, nel complesso, quella del 2021 si prospetta come una annata di alta qualità. Ma… che fatica. Forse per la prima volta, nel recente focus sulle previsioni vendemmiali promosso da Regione del Veneto e Veneto Agricoltura con Avepa, Arpav e Crea-VE, il direttore di quest’ultimo, il ricercatore Diego Tomasi, ha inserito anche la difficoltà gestionale viticola tra gli elementi presi in esame per delineare lo stato dell’arte delle vigne venete. Non che le annate precedenti siano state delle passeggiate – o che in generale fare il viticoltore e il produttore di vino sia sempre un letto di rose – , ma quest’anno è andata peggio del solito. I mesi di aprile e maggio hanno presentato un livello di difficoltà gestionale viticola altissima, quelli di luglio e agosto alta, media gli altri periodi. Solo l’inizio dell’anno (gennaio e febbraio) sono stati facili. Colpa del cambiamento climatico ovviamente, e delle sue conseguenze: un andamento meteo sempre più imprevedibile che si trasforma una girandola impazzita di eventi estremi (gelate tardive, piogge torrenziali, grandinate, picchi di caldo torrido, siccità) sempre più frequenti. Nella sua presentazione, Tomasi ha tracciato un quadro abbastanza complesso di una situazione viticola buona, ma non priva di campanelli di allarme. Da un punto di vista sanitario, come detto, al momento le uve stanno bene, ma i pericoli non mancano: la flavescenza dorata, che da qualche anno sembrava sotto controllo, ora sta tornando a diffondersi con forza, così come si stanno ripresentando giallumi e mal dell’esca. In futuro non si escludono attacchi più frequenti anche di oidio e black rot. Tutte minacce che stanno raffreddando l’entusiasmo per la conduzione biologica, a dispetto della crescente richiesta del pubblico di vini bio. Ciò premesso, dove sta andando la viticoltura del Nord Est?  Alcuni trend appaiono chiari. La sensibilità ambientale cresce: si notano un abbandono quasi unanime del glifosate, un incremento esponenziale della richiesta di certificazione SQNPI (Sistema di Qualità Nazionale di Produzione Integrata, alla quale da tempo lavora il Consorzio del Prosecco Doc), un maggior uso degli atomizzatori a recupero, un crescente interesse per la viticoltura di precisione e per le varietà intraspecifiche. Quest’ultimo elemento in particolare sarà sempre più da qui in poi un argomento di riflessione e discussioni tra produttori, Consorzi, enti di ricerca: se il clima cambia molte coltivazioni dovranno essere riviste, e con esse i disciplinari di produzione. Quel che appare chiaro è che, se si vuole avere la meglio sulle sfide sempre più complesse (e interconnesse) che i tempi attuali ci stanno presentando, sarà necessario che tutti gli attori della filiera vitivinicola (produttori, ricercatori, coltivatori, ricercatori, Consorzi di tutela) collaborino tra loro, studino, innovino e sperimentino a un ritmo anche più sostenuto dell’attuale. Oggi più di ieri, da soli non si va da nessuna parte. LEGGI TUTTO

  • in

    Il vino perfetto

    …è un ideale. Necessario.Ci sono libri che non dovrebbero mancare nella biblioteca – o sull’e-reader – di ogni appassionato di vino degno di questo nome, ovvero curioso, disposto a sperimentare, ad approfondire, aperto a nuove nozioni e nuove esperienze sensoriali. Uno di questi è “Il vino perfetto” di Jamie Goode, un nome che per i wine lover di tutto il mondo non ha bisogno di presentazioni. Dei molti wine critics in circolazione, Goode è uno dei pochi nei quali la curiosità scientifica prevale spesso e volentieri su altri approcci. Non a caso ha scritto altri libri come “Wine Science” – altro tomo che raccomando a chi condivide il suo pallino per la scienza – “I Tasted Red: The Science of Tasting Wine” e altri ancora. Come scrive il prof. Maurizio Ugliano, già membro dell’Australian Wine Research Institute (AWRI) e attualmente docente di Enologia al corso di laurea Viticoltura ed Enologia dell’Università di Verona, “Di Jamie mi colpirono la curiosità verso la chimica e la biochimica della vinificazione, e l’interesse per la ricerca accademica in ambito enologico, cose rare nella galassia dei comunicatori e divulgatori del vino” *. “Il Vino Perfetto” (titolo originale: “Flawless”) (Ampelos Editore), è un lavoro scientifico con un taglio filosofico. Una lettura non sempre facile per i non addetti ai lavori, e probabilmente poco pop per il rigoroso linguaggio scientifico adottato (ma se le sfumature di fumo e speziato in chimica si chiamano 4-etilguaiacolo, o se i sentori fruttati di pesce mela si chiamano etil 2-metil butirrato non è colpa di Jamie. O di noi wine critics). Il tema che affronta però è di grande interesse per tutti, enologi, produttori, consumatori:  parla infatti dei difetti del vino. Cosa determina la difettosità di un vino? Siamo sicuri che un vino perfetto – cioè assolutamente privo del benché minimo difetto – ci piacerebbe? Il brett, besta nera di enologi e produttori – e di molti consumatori – è sempre il male assoluto? Cos’è, come si sviluppa, e perchè alcuni vini ne sono più afflitti di altri? Si può evitare? E come? “Il brett è un argomento molto interessante – dice Goode – Per quanto si tratti di un difetti, è un elemento accettato in alcuni grandi vini, in particolare in quelli invecchiati. E’ un eccellente esempio del perchè si dovrebbero studiare i difetti del vino con una prospettiva più sfumata, piuttosto che con un atteggiamento binario “difetto o non difetto”. In ogni caso, il brett è qui per restare e gli enologi hanno bisogno di controllarlo”. L’elenco dei difetti del vino è lungo: ossidazione, riduzione, composti solforati, le molte contaminazioni possibili, acidità volatile, “gusto di luce”, geosmina, e altri ancora.Ogni aspetto viene esaminato nel profondo, discusso anche con esperti (nel libro non mancano le interviste a enologi, ricercatori e produttori). L’impressione è che più si sviscera l’argomento, più certe granitiche certezze personali (“buono/non buono”) iniziano a vacillare. Le conclusioni che si possono trarre dalla lettura – e consultazione frequente – di un libro come questo è che fare il vino è un mestiere maledettamente difficile, zeppo di trappole e insidie, e che il vino stesso è un prodotto terribilmente complesso e mutevole. Imparare a conoscere ciò che può affliggerlo – o esaltare – . significa anche scoprire qualcosa in più di noi stessi, di ciò che ci attira o ci respinge. Perchè la degustazione è sempre un’esperienza personale, lo sforzo di ciascuno di noi di oggettivare il soggettivo.O , se preferite, un gioco di (precari) equilibri.*Personalmente condivido gli stessi interessi di J.Goode, per questo seguo sempre con interesse anche il suo online wine magazine. LEGGI TUTTO

  • in

    Vino e ristorazione: serve un nuovo patto

    “Se noi pensiamo al pranzo, e alla cena italiani troviamo questi due elementi che combaciano: il vino e il cibo. In un mondo sempre più meccanizzato, automatizzato, sappiamo che quando entriamo in un ristorante c’é una persona che fa qualcosa a mano per noi: il cuoco, lo chef. (…)”. (Luigi Cremona).
    Nella cultura italiana il connubio vino e cibo è ciò che ci rende speciali, attraenti, invidiati nel mondo. Fa parte del DNA dei popoli mediterranei, rinunciarvi (adottando stili di consumo che non ci appartengono) sarebbe un suicidio e una colossale idiozia. Da tempo però produttori e ristoratori avvertono che qualcosa non funziona più nel loro rapporto, ma un po’ per pigrizia mentale, un po’ perché sopraffatti dalle mille seccature e problematiche quotidiane non hanno mai trovato modo o tempo per rifletterci su.
    Fino ad oggi. La pandemia tuttora in corso sta costringendo tutti a rivedere modalità e tempi sia del vivere quotidiano che del proprio lavoro e delle relazioni. Vino e ristorazione non possono fare a meno l’uno dell’altra, e per quanto a volte sembri un matrimonio forzato è nell’interesse di entrambi i protagonisti farlo funzionare. O da questa crisi si esce insieme, o insieme si soccombe.
    Nei giorni scorsi, complice l’evento inaugurale della ristrutturata cantina Al Monte di Livio della famiglia Seganfreddo, a Colceresa (VI), si è tenuta un’interessante conversazione tra il direttore di Wine Meridian Fabio Piccoli e il giornalista gastronomico Luigi Cremona, durante la quale sono stati anticipati alcuni risultati di un’indagine ancora in corso, realizzata dalla testata in collaborazione con Witaly/Porzioni Cremona. L’analisi prende in considerazione due diversi punti di vista: quello dei produttori di vino e quello degli operatori del mondo della ristorazione, ai quali sono state poste domande simili.
    Il punto di vista dei produttori di vino 
    Alla domanda “Come considera attualmente il suo rapporto con il canale Horeca Italia?” il 55% degli intervistati h risposto “non soddisfacente” e dunque da modificare, il 20% “molto buono” e il 25% “accettabile”, ma sempre bisognoso di modifiche. Ciò di cui i produttori si lagnano di più sono “la concentrazione solo nei confronti di brand e denominazioni del territorio” (35%), o dei soliti brand più popolari (25%), mentre altri lamentano scarsa disponibilità ad ampliare la loro offerta, o a conoscere maggiormente le aziende. A ciò è legata un’altra criticità: la difficoltà a realizzare attività di promozione dei vini all’interno dei ristoranti. Per la maggior parte delle aziende non si tengono mai (60%), oppure raramente (25%). 
    Le cose non vanno bene nemmeno sul fronte commerciale: il 60% delle aziende ritiene che la propria rete commerciale non sia adeguata per relazionarsi al meglio con il canale Horeca.
    Cosa cambierà nel post Covid-19? Secondo il 40% dei produttori vi sarà una diversificazione dei modelli di distribuzione (online, home delivery, vendita diretta…). Altri invece pensano che vi saranno nuove relazioni commerciali con rapporti più a distanza (30%) e una maggiore richiesta di vini sostenibili (25%). Solo il 5% ritiene che si vedrà una diminuzione della vendita nel canale Horeca. 
    Il punto di vista dei ristoratori 
    Alla domanda sui criteri di selezione dei vini da proporre nel proprio locale, i ristoratori intervistati hanno risposto parlando di scelte legate alle proprie preferenze personali (30%), o ai consigli e alle proposte di distributori ed agenti (30%). Solo il 20% si fa guidare da un rapporto di conoscenza diretta dell’azienda. 
    Dall’osservatorio dell’Horeca, oggi le difficoltà principali per i clienti nella scelta del vino sono legate a prezzi dei vini troppo alti per le disponibilità attuali (25%). Pesano però anche una scarsa cultura enologica (20%), la modifiche degli stili di vita (sempre meno persone scelgono di bere vino a pranzo, per esempio) la concentrazione dei soliti brand noti (20%), la preferenza di bevande più “facili” come la birra (10%) o la difficoltà a capire il giusto abbinamento (5%).  Perciò per i ristoratori, nel post Covid-19 si consumeranno vini più economici, o più vini italiani/del territorio”, mentre il 15% pensa che si richiederanno di più vini biologici e bevande alternative. 
    Nulla di particolarmente nuovo, inaspettato, a ben vedere, a dimostrazione che si tratta di problemi che si trascinano da anni. Nodi che ora, però, bisogna iniziare a districare, insieme.
    Non importa quanta pazienza o quanto tempo ci vorranno. LEGGI TUTTO

  • in

    Come dovrebbe essere una foto del vino per essere efficace?

    Buon 2020 a tutti. Abbiamo chiuso il 2019 con un’intervista ad un wine photographer britannico, dallo stile molto personale e a volte spiazzante; apriamo il 2020 con un altro professionista della scrittura con la luce, questa volta italiano: Mauro Fermariello. Gli abbiamo rivolto le stesse domande fatte a Matt Wilson, e queste sono le sue […] LEGGI TUTTO