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    Franciacorta: ci sono novità

    Un territorio ad alta vocazione spumantistica, come può essere la Franciacorta, diviene davvero realtà compiuta a livello qualitativo, e pertanto tra i punti di riferimento a livello internazionale per tipologia, quando durante le degustazioni non sono più solo i nomi dei “soliti noti” a stupire, ma sono proprie le cantine meno blasonate o poco conosciute a presentare referenze di livello davvero sorprendente. È il caso di due aziende in particolare per le quali ho perso letteralmente la testa e devo dire che non mi succedeva da tanto, sto parlando di Corte Aura e Terre D’Aenòr. Come prima cosa collochiamo nel territorio franciacortino le due cantine: Corte Aura si trova a Adro mentre Terre D’Aenòr a Provaglio d’Iseo. Prima di addentrarci nel dettaglio delle due aziende giova ricordare l’antica vocazione spumantistica della Franciacorta. Infatti, una delle prime pubblicazioni al mondo sulle tecniche di preparazione dei vini a fermentazione naturale in bottiglia e sulla loro azione sul corpo umano dal titolo “Libellus de vino mordaci” è del 1570 e si deve al medico bresciano Girolamo Conforti.  

    Questo medico, i cui studi precedettero le intuizioni dell’illustre abate Dom Perignon, mise in rilievo la notevole diffusione e il largo consumo che i vini con le bollicine avevano in quell’epoca, definendoli “mordaci”, cioè briosi e spumeggianti. Invece, da dove derivi il nome Franciacorta è ancora un mistero. l’ipotesi più accreditata è quella che lega il territorio alla presenza di monasteri cluniacensi e cistercensi che giunsero in Franciacorta da Cluny nel XI secolo. Monasteri molto potenti che, grazie alla bonifica e coltivazione dei vasti appezzamenti che amministravano in questi territori, riuscirono attorno al 1100 ad ottenere l’esenzione dal pagamento del dazio. Erano quindi delle Francae Curtes, cioè delle corti libere dalle tasse. Da Francae Curtes nacque il toponimo “Franzacurta”, apparso per la prima volta negli annali del Comune di Brescia già nel 1277. 

    Federico Fossati

    Dopo questa breve ma necessaria divagazione storica, che meglio contestualizza vocazione e territorio della Franciacorta, ritorniamo alle nostre cantine.

    Corte Aura nasce nel 2009 per volontà di Federico Fossati, il quale grazie all’incontro con Pierangelo Bonomi, tecnico con una lunga esperienza nel campo della spumantizzazione di alta qualità, realizza il suo sogno di produrre vino in Franciacorta. Corte Aura si dedica esclusivamente alla produzione di Franciacorta longevi e di grande espressione: per questo prevede per le proprie cuvée soste sui lieviti non inferiori ai 36 mesi, fino a superare i 50 mesi, scegliendo di millesimare alcune cuvée solo nelle migliori annate. Il simbolo di Corte Aura è la tartaruga proprio a voler ricordare la lentezza dei lunghi affinamenti, per Federico Fossati e Pierangelo Bonomi la fretta e a giovarne è ovviamente la qualità complessiva dei loro vini.

    I vini degustati

    Corte Aura Franciacorta Brut

    È lo spumante d’ingresso di Corte Aura, da uve 90% chardonnay e 10% pinot nero. I vini base vengono vinificati separatamente ed in seguito assemblati per creare la cuvée. Affinamento in bottiglia sui lieviti per un periodo di circa 30 mesi in cantine a temperatura costante di 12-15 °C. Affilato ed elegante, se il buongiorno si vede dal mattino…

    Corte Aura Franciacorta Rosè

    Da uve 90% chardonnay e 10% pinot nero. I vini base vengono vinificati separatamente ed in seguito assemblati per creare la cuvée. Affinamento in bottiglia sui lieviti per un periodo di circa 36 mesi in cantine a temperatura costante di 12-15 °C. è ancora l’eleganza complessiva a sorprendere, accompagnata dalla nitidezza del frutto.

    Corte Aura Franciacorta Blau Blanc de Noir 2016

    Nato da poco, è il primo esperimento sul pinot nero in purezza della cantina. Vinificato in acciaio, sosta sui lieviti per oltre 60 mesi. Spumante di notevole complessità e personalità, tuttavia il sorso è leggiadro e il finale di grande persistenza, Franciacorta regale.

    Corte Aura Franciacorta dosaggio zero “Raramè” 2012

    Un blend di chardonnay (60%) e pinot nero (40%) che vuole essere una vera e propria “rarità”: solo 5850 bottiglie numerate, in commercio a partire dalla tarda primavera. Un’annata complessa come la 2012, considerata minore per i vini fermi ma, come spesso accade, ottima – se non grande per il Metodo Classico, oltre 90 mesi di permanenza sui lieviti in bottiglia sdraiata, a una temperatura compresa tra 12-15° C, quindi ulteriori 24 mesi “in punta”, con l’obiettivo di perfezionarne l’evoluzione. È uno spumante che definirei aureo, tra i Franciacorta più buoni mai assaggiati negli anni, notevole eleganza complessiva, cangiante, incisivo e profondo.

    Eleonora Bianchi

    Terre D’Aenòr, nasce nel 2018 per volontà̀ della famiglia Bianchi, in particolare di Eleonora Bianchi la giovanissima proprietaria che ha saputo coniugare con il suo progetto qualità e creatività. I 46 ettari di vigneto, interamente di proprietà, abbracciano sette comuni e sono articolati in 33 appezzamenti distinti, una scelta ponderata che permette di dedicare a ciascuna pianta un’attenzione su misura, valorizzando al meglio le specificità pedoclimatiche di ogni singola zona per garantire la crescita ottimale delle viti. La selezione varietale è rappresentata dalle uve di chardonnay, pinot nero, pinot bianco, merlot e cabernet sauvignon. Attualmente la cantina ha nel suo portfolio per gli spumanti il Brut, l’Extra Brut Millesimato, il Rosè Extra Brut Millesimato, il Pas Dosè Millesimato, il Satèn e il Demi-sec.  Affiancati da un bianco fermo “È Norì” da uve chardonnay e da “Spadone”, un rosso di taglio bordolese.

    La storia di Terre D’Aenòr è indissolubilmente legata alla storia di vita di scelte coraggiose che Eleonora Bianchi ha sostenuto e merita di essere raccontata direttamente dalle sue parole: “Il mio percorso è insolito e mai avrei pensato che avrei lavorato nel mondo del vino. Ho sempre sognato di diventare avvocato, giurisprudenza mi è piaciuta tantissimo. Mi sono laureata a Brescia ad aprile 2020 e avevo già pronta una lista di alcuni grandi studi milanesi dove avrei mandato il curriculum. Poi, ecco che accade una “magia” che rimescola le carte in tavola. Premessa: mio padre, imprenditore del settore oleodinamico, dal 2003 ha iniziato a investire nell’acquisto di vigneti in Franciacorta e, per anni, ha sempre venduto l’uva. Verso la fine del mio percorso di laurea, viene però a maturazione quello che è sempre stato un grande sogno di famiglia: realizzare una nostra cantina in Franciacorta. Davvero entusiasmante! Giorno dopo giorno è come se fossi stata conquistata da questo progetto nascente, che si è progressivamente sostituito nella mia mente alle aule di Tribunale.

    All’inizio non è stato facile, mi sarebbe piaciuto fare entrambe le cose. Infatti, avevo iniziato la pratica forense part-time, metà giornata nello studio legale e metà con il team marketing con il quale stavamo studiando i primi aspetti della nuova cantina, come per esempio il nome o la grafica delle etichette, ma poi ho compreso che mi trovavo di fronte a un bivio e dopo aver riflettuto a lungo ho capito che questa sfida imprenditoriale mi appassionava davvero tanto. E così, eccomi qui!”   “Questo cambiamento di rotta non è stato facile ma fin da subito ho percepito un profondo senso di appartenenza a una passione familiare per questo mondo. Abitava inoltre in me il desiderio di dare vita a qualcosa di tangibile e profondamente mio, qualcosa che potesse incarnare l’essenza stessa del mio territorio e che potesse coniugare a 360 gradi le mie svariate passioni e attitudini.”  Il prossimo capitolo della storia aziendale si aprirà con l’inaugurazione, prevista per il 2025, della nuova cantina nel comune di Provaglio D’Iseo e con l’uscita sul mercato delle prime riserve targate Terre D’Aenòr.

    I vini degustati

    L’azienda è biologica sin dalla prima vendemmia. La conversione dei vigneti è iniziata nel 2014 per arrivare poi alla certificazione dalla vendemmia 2018.

    Particolare  e molto d’effetto anche il packaging che vuole rappresenta un punto di incontro tra il mondo del vino e quello dell’arte e della moda, trae infatti ispirazione dalle correnti artistiche che hanno segnato l’avanguardia e l’arte moderna della metà del Novecento, con un particolare tributo alle opere dell’artista Dadamaino, pseudonimo di Edoarda Emilia Maino che contribuì attivamente ai movimenti dell’avanguardia artistica milanese degli anni cinquanta con le sue ricerche geometrico-percettive.

    Terre d’Aenòr Franciacorta Brut

    Da uve 90% chardonnay e 10% pinot nero, permane sui lieviti almeno 22 mesi. Un Franciacorta che a definirlo entry level si commette peccato, setoso e leggiadro nel sorso.

    Terre d’Aenòr Franciacorta Rosé Extra Brut Millesimato 2020

    Da uve 80% pinot nero e 20% chardonnay, permane sui lieviti per più di 30 mesi. Sale subito in cattedra per eleganza complessiva, cangiante nel bicchiere, davvero una gran bella prova.

    Terre d’Aenòr Franciacorta Demi Sec

    Da uve 90% chardonnay e 10% pinot nero, permane sui lieviti per più di 30 mesi, con un residuo zuccherino di 40 g/L. Un Demi sec di altissimo livello con una nota sapida davvero intrigante. Dovremmo avere tutti sulla nostra tavola un vino così, vuoi per un aperitivo insolito: un finger food a base di sushi oppure di foie gras, oppure per un fine pasto in abbinamento con i lievitati della tradizione ovvero panettone e pandoro.

    Bene Eleonora, adesso aspettiamo con ansia le riserve. LEGGI TUTTO

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    Terroir Marsala: un viaggio tra passato e futuro a Vinitaly 2024

    Marsala, celebre per la sua storia vinicola e la sua terra fertile, ha brillato al Vinitaly di Verona con un affascinante talk show dedicato al Terroir Marsala. Il Presidente e il Vicepresidente del Consorzio per la Tutela del Vino Marsala Doc, Benedetto Renda e Roberto Magnisi, insieme al Master of Wine Pietro Russo, “marsalese doc”, hanno guidato il pubblico alla scoperta dei segreti e dell’adattabilità del vino Marsala, evidenziando il legame con il vitigno Grillo e offrendo spunti interessanti sulla sua ricchezza contemporaneità.

    Durante l’evento sono stati offerti in degustazione un Marsala Doc Vergine e un Marsala Doc Superiore, due tipologie che rappresentano l’autenticità, la tradizione e la versatilità del vino più famoso al mondo.

    “Il territorio di Marsala è un vero e proprio scrigno di tesori vitivinicoli che ne fanno una delle località più importanti per la produzione del vino Marsala. Insieme al Master of Wine Pietro Russo abbiamo esplorato i segreti del Terroir Marsala e degustato la ricchezza, la versatilità e la contemporaneità del nostro vino, senza mai compromettere l’autenticità e la tradizione che lo contraddistingue”, ha dichiarato il Presidente, Benedetto Renda. E ha continuato confermando Pietro Russo “ambasciatore del vino Marsala nel mondo”.

    Il talk è stato caratterizzato da un incedere di domande e risposte tra Roberto Magnisi e Pietro Russo, il quale ha sottolineato come “Il vino Marsala è un vero e proprio camaleonte enologico, capace di adattarsi a molteplici occasioni d’uso e di abbinamenti culinari. Dall’aperitivo al dolce, passando per antipasti, primi, secondi e formaggi, il Marsala dimostra la sua versatilità e la sua capacità di valorizzare ogni piatto e soddisfare ogni palato. Un vero tesoro della tradizione enologica siciliana, da scoprire e apprezzare in tutte le sue sfumature”.

    Infine, è stato presentato il Museo del Vino di Marsala, intitolato a John Woodhouse e dedicato alla memoria di Marisa Leo, vittima di femminicidio e attivista contro la violenza di genere.

    Il Sindaco di Marsala, Massimo Grillo, e il consigliere della Strada del Vino di Marsala, Stefano Caruso, hanno illustrato i dettagli del Museo, che rappresenta un ponte tra passato e futuro del vino siciliano.

    Secondo il Sindaco di Marsala, Massimo Grillo, il Museo, che sarà inaugurato il 12 maggio prossimo, rappresenta “Un contenitore multimediale e sensoriale, un luogo unico dove passato e futuro della tradizione enologica si incontrano. La tradizione rurale-contadina ed enologica di Marsala è pertanto la vera protagonista del Museo che, in prospettiva, svilupperà un sistema di marketing territoriale che avrà nella cultura del vino il suo filo conduttore”.

    Conclude Stefano Caruso, intervenuto per conto del Presidente Lombardo: “Marsala, finalmente, avrà il proprio Museo del Vino, nello storico Palazzo Fici, già sede dell’Enoteca della Strada del Vino di Marsala – Terre D’Occidente. Il Museo consentirà al visitatore di “fare un viaggio” nel vino Marsala e di immergersi in un’avventura sensoriale che si concluderà con la possibilità di prenotare le visite nelle cantine delle aziende associate, per poter conoscere e degustare le diverse tipologie di Marsala ed i rinomati ed apprezzati vini del territorio. Una sinergia importante, quella tra il Consorzio, la Strada del vino e il Comune di Marsala, che porterà i suoi frutti in termini di enoturismo e racconto del territorio e delle sue eccellenze.

    Con il Vinitaly 2024, il Marsala si conferma protagonista nel panorama vitivinicolo internazionale, affermando la propria capacità di adattarsi alle tendenze del mercato globale senza mai perdere di vista le proprie radici. LEGGI TUTTO

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    Rebecca Valent: il sostegno alle donne che lavorano e l’importanza di comunicare bene il territorio

    Se passate per Pramaggiore, lembo di terra al confine tra Veneto e Friuli  e domandate  in quali cantine si fa il vino buono, tra i primi nomi a essere enunciati ci sarà sempre Stajnbech. Giuliano Valent e sua moglie Adriana Marinato, sin dall’inizio del progetto, sul finire degli anni ’80 del Novecento, si sono concentrati su produzioni di qualità, in controtendenza con il pensiero dominate all’epoca in queste terre, siamo nella DOC Lison Pramaggiore, dove si badava più alla concretezza dei numeri.

    Rebecca Valent

    Oggi Giuliano e Adriana sono affiancati dalla figlia Rebecca, classe 1995, enologa, nata e cresciuta in cantina ma con alle spalle anche un’esperienza in California, dove ha potuto arricchire il suo personale bagaglio di conoscenze. Rebecca rappresenta la terza generazione, il futuro nel quale Giuliano e Adriana credono e al quale affidano la naturale prosecuzione della tradizione di famiglia con l’intraprendenza, l’energia e la visione innovativa dei giovani.

    Rebecca è giovane ma ha già sviluppato una precisa idea circa lo stile di un vino. Per lei, che ha alle spalle solo 9 vendemmie, quello ideale deve essere pulito, equilibrato, strutturato ma elegante, ma soprattutto rispettoso dei sentori tipici del vitigno e del territorio, dice Rebecca: “Non amo le mode in cui i difetti si nascondono dietro filosofie “particolari” – spiega – e per me la parola d’ordine in assoluto è degustare, e cercare di avere un confronto costante con gli altri produttori anche riguardo l’evoluzione dei processi produttivi”.

    La cantina Stajnbech

    Ma Rebecca ha un altro importante obiettivo, contribuire a dare voce alle giovani donne, una generazione in evidente crescitain cui lei si identifica, e che sta fortemente contribuendo a portare valore nel mondo del vino italiano, in alcuni casi come naturale prosecuzione dell’attività familiare, in altri progettando di creare una realtà vitivinicola propria. Rebecca fa parte di Sbarbatelle: “un gruppo, dice Rebecca, che a oggi conta 160 giovani produttrici provenienti da tutta Italia e in noi vedo una carica e un potenziale immensi. Unite, facciamo capire al di fuori che il mondo del vino ha bisogno di parità di genere, anche per continuare nelle generazioni la tradizione del vino.”

    Ma non è tutto. Rebecca Velent, infatti crede molto anche nel territorio e nell’importanza della sua valorizzazione, anche attraverso l’enoturismo: “Siamo collegati a mete turistiche importanti dice, il litorale e Venezia ma anche le Dolomiti non sono lontane dal territorio della Doc Lison Pramaggiore. Vorrei sempre trasmettere a chi viene in visita in cantina, tutto l’amore e la passione che ogni giorno mettiamo in ogni fase della nostra produzione, dal vigneto alla bottiglia, raccontando un territorio, la sua storia e il suo valore culturale che è poi quello che si ritrova nei nostri vini, passando anche il messaggio che il consumatore di vini italiani è da sempre il più tutelato”. LEGGI TUTTO

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    Château d’Yquem, il mito raccontato in un libro

    Una dei termini più abusati per raccontare il vino è sicuramente “iconico”, spesso si usa questa parola a sproposito quando invece andrebbe riservata solo ad un numero di etichette davvero ristretto, una di queste è senza dubbio Château d’Yquem. Basti pensare che nel Nel 2016, lo Château d’Yquem è entrato nel Guinness dei primati come il vino bianco più costoso al mondo, infatti,  una bottiglia del 1811 è stata acquistata per 75mila sterline, pari a circa 85mila euro.

    Francesca Brambilla, Cinzia benzi , Serena Serrani

    Al mito Château d’Yquem è dedicato volume monografico edito da Seipersei e da poco in libreria, scritto da Cinzia Benzi e fotografato da Francesca Brambilla e Serena Serrani. Cinzia Benzi è la storica firma di Identità Golose, esperta conoscitrice di etichette d’Oltralpe, da sempre una penna ispirata, intinta nel colore vivo del vino, che indaga e racconta tanto le grandi Maison quanto i piccoli vigneron italiani e internazionali, tracciando profili puntuali ma mai didascalici delle loro produzioni.

    Scorrendo le pagine del libro, il lettore potrà trovare nozioni più tecniche come la descrizione di vitigni e stili di vinificazione adottati, ma anche incontrare le figure chiave che ruotano attorno alla cantina, dalla tenace e visionaria fondatrice Joséphine Sauvage d’Yquem, la cui vicenda ricorda i migliori romanzi di formazione, all’attuale presidente e direttore generale Pierre Lurton, insieme all’italianissimo directeur d’exploitation Lorenzo Pasquini, che oggi ci conduce verso il futuro di Yquem.

    Alla stesura del libro hanno partecipato, con le proprie riflessioni, anche colleghi del settore enogastronomico: Eleonora Cozzella, collaboratrice di Repubblica; Federico De Cesare Viola, direttore editoriale di Food&Wine italia; Maddalena Fossati Dondero, direttrice responsabile de La Cucina Italiana; Andrea Grignaffini, direttore de Le guide de L’Espresso; Paolo Marchi, co-fondatore di Identità Golose; Leila Salimbeni, direttore editoriale di Spirito Divino; ma troveremo anche gli spunti del Master of Wine Gabriele Gorelli e di Massimo Bottura e Giuseppe Palmieri, rispettivamente chef patron e direttore di sala di Osteria Francescana a Modena, presso cui si è tenuta una memorabile (e riservatissima) degustazione di annate storiche di Château d’Yquem, nell’aprile 2023.

    Ogni contributo è pensato per offrire all’esperto quanto al neofita una panoramica esaustiva sul mondo Yquem e i suoi segreti. Ma quando le parole non sono sufficienti…ecco entrare in scena la potenza della fotografia. Perché Château d’Yquem non è soltanto un compendio sul vino più rappresentativo del Sauternes, ma anche un libro dal forte impatto visivo.

    Merito dell’obiettivo e dello sguardo di Francesca Brambilla e Serena Serrani, specialiste dello still life e del reportage fotografico e interpreti di punta della food photography italiana. Seguendo Cinzia Benzi nel suo viaggio, hanno impresso sulla pellicola immagini evocative, che ci trasportano tra i vigneti nel lento alternarsi delle stagioni, nel silenzio delle cantine dove le bottiglie riposano, tra le pietre con cui la tenuta è stata costruita. Dettagli minuti e grandi panorami dialogano in maniera equilibrata con la parola scritta, regalando al lettore un racconto altrettanto intenso e potente, fatto di luce, linee e colori.

    Ad arricchire l’opera, infine, le illustrazioni di Gianluca Biscalchin, che interpreta le note di degustazione di Yquem, tratteggia alcuni dei possibili abbinamenti al vino e ci regala altri scorci della tenuta.

    “La vita è come la vite che cambia le foglie, produce i frutti, ma il vero valore aggiunto sono le radici ben piantate nella terra” chiosa Cinzia Benzi a conclusione di un libro che cresce pagina dopo pagina e che ci offre un prezioso spaccato sulla genesi di un mito: quello di Château d’Yquem.

    Château d’Yquem

    Testi di Cinzia Benzi

    Fotografie di Francesca Brambilla, Serena Serrani

    Illustrazioni di Gianluca Biscalchin

    Prefazioni di Andrea Grignaffini e Lorenzo Pasquini

    Pensieri di Massimo Bottura, Eleonora Cozzella, Federico De Cesare Viola, Maddalena Fossati Dondero, Gabriele Gorelli, Paolo Marchi, Giuseppe Palmieri, Leila Salimbeni

    Formato, 22,5x29cm; Copertina, cartonato su patinata opaca con plastificazione opaca, stampa 4/0; Interni, 176 pagine su GardaMatt Ultra da 150gr con vernice, stampa 4/4 colori; Risguardi, su usomano stampati 4/0; Confezione, brossura filo refe, dorso quadro con capitelli.

    ITA, ENG, FRA 2023 – € 60,00 – Seipersei Edizioni LEGGI TUTTO

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    Nuove vignaiole: Teresa Mincione, ma nulla è per caso

    Il 2024 parte bene, subito una bella novità. Scorrendo la mia timeline di Facebook mi imbatto in un post di Luciano Pignataro e sobbalzo sulla sedia. Luciano riprende un suo articolo che ha appena pubblicato su “Le Pagine del Gusto” del Mattino per raccontare la storia di Teresa Mincione, avvocato, sommelier con vari master, collaboratrice per oltre 12 anni della guida Slow Wine, scrittrice di vino, che ha deciso di passare dall’altra parte della barricata diventando produttrice. Ho conosciuto Teresa qualche anno fa in giro per l’Italia come inviata del Blog di Luciano Pignataro, poi la ricordavo molto impegnata nella sua professione di avvocato e mai mi sarei aspettato un cambio di vita così radicale, va da sé che era urgente sentirla subito per saperne di più.

    Vigneti di Casavecchia a Castel Campagnano

    Teresa, la prima domanda è ovvia, come, quando e perché hai deciso di diventare produttrice?

    Credo che nella vita esistano dei percorsi predestinati, ancestrali. E credo, al tempo stesso, che l’amore che si prova verso ciò che si fa con profonda e viscerale passione possa rivelarsi, in un’analisi a posteriori, un sottovalutato acceleratore d’arrivo verso ciò che all’inizio può apparire impossibile o un “mero” grande sogno nel cassetto. In un intreccio di situazioni importanti, ho avuto il felice coraggio di leggere ciò che la vita mi stava offrendo e di trasferirmi dall’altro lato della storia. Non più come chi racconta il territorio attraverso gli scorci di vite altrui, ma come chi, conscia del percorso fatto, attraverso il proprio vissuto, si impegna a narrare con il proprio lavoro, in vigna e in cantina, un terroir unico. In altre parole, far arrivare la preziosità di un piccolo areale dal grande potenziale, attraverso la voce di vitigni autoctoni tipici della provincia di Caserta: Casavecchia e Pallagrello. Voci piccole rispetto al coro del panorama enologico italiano, ma non da meno straordinarie, in grado di raccontare, con le sfumature che sono proprie di ognuno, un territorio che in un tempo fu reso grande anche dalla storia attraverso l’indimenticabile anima dei Borbone che tanto amarono il Pallagrello da inserirlo nella storica “vigna del ventaglio”.

    Casavecchia

    Ti ricordavo competente e preparatissima, ma tra scrivere di vino e fare vino, converrai con me, che c’è una bella differenza. Quando hai capito che eri pronta a far uscire un’etichetta con il tuo nome, sfidando gli strali della critica enoica e la competitività del mercato?

    Da degustatrice campana, ho sempre seguito i percorsi e le evoluzioni che i vitigni regionali avevano nel tempo. Ma il Casavecchia e Pallagrello, da sempre mi hanno affascinato. Ho iniziato per gradi, iniziando dal Casavecchia. Quando la mia vita è cambiata, diventando a tempo pieno, dedicata al vino, lo studio e la sperimentazione sul vitigno Casavecchia hanno caratterizzato il mio lavoro in vigna e in cantina, diventando i veri predecessori del prodotto finito. Il primo passo verso un vino di qualità è partire dalla cura profonda della vigna, come fosse una parte di te allocata in altro luogo. Solo attraverso una vigna sana nel totale rispetto della biodiversità e della natura può esistere un vino di qualità. Quando accanto all’idea di un vino autentico e di territorio, si è accompagnata la reale possibilità, vendemmia dopo vendemmia, di offrire un prodotto identitario, in grado di raccontare vitigno, annata e la passione di chi lo produce, allora ho ritenuto che il mio Nulla è per caso, Casavecchia in purezza, potesse aver vita. E l’anfora, contenitore antico quanto moderno, mi è stata d’aiuto. Creare un vino è un atto d’amore profondo, viscerale, attraverso il quale racconti una storia. È un’equazione irripetibile, quella che nasce dalla fusione del produttore con il suo vino, della sua vita con quella del suo vino, del suo tempo con quello del suo vino.

    Tra l’altro, con una ulteriore dose di grande coraggio, hai deciso di scommettere su un vitigno sicuramente non tra i più noti della Campania, il Casavecchia. Come mai questa scelta e quale disegno hai in mente per valorizzarlo e farlo conoscere di più?

    Il Casavecchia è un vitigno molto particolare, poco conosciuto e a mio parere, sottovalutato. Da sempre lo si conosce attraverso dettami che ad oggi non gli consentono di godere di una giusta luce. Grande estratto e energica potenza, i tratti che da sempre hanno accompagnato l’idea del grande pubblico. Eppure, nella giusta luce e prospettiva produttiva, può offrire il fianco ad una nuova chiave di lettura con conseguente cambio del panorama gustativo declinato in termini di bevibilità e piacevolezza, di freschezza e tannini che non imbrigliano ma completano il sorso. In altre parole, togliere per valorizzare, svestire più che coprire. Cosa farò per farlo conoscere? Cercherò di offrire una sua rilettura attraverso un nuovo modo di raccontarsi come vitigno misterioso ma al tempo stesso versatile e interessante in grado di rivelarsi nell’era moderna, piacevole, bevibile e gastronomico. È in vigna che nasce un buon vino, ma è a tavola che lo si apprezza a tutto tondo.

    Altra domanda di prammatica per chi si ritrova in un progetto nuovo riguarda il futuro. Ti concentrerai solo sul Casavecchia oppure hai già in mente qualcos’altro?

    La sperimentazione sul Casavecchia è stato il mio primo amore e non nego che un nuovo progetto per il racconto di questo vitigno è nei pensieri, ma in cantiere ci sono già delle novità che riguardano il Pallagrello nero, altro vitigno che fa parte della mia vigna (assieme al Pallagrello bianco) sulle dolci colline di Castel Campagnano. Tra i filari, viti vecchie di oltre trent’anni di Casavecchia, Pallagrello nero e Pallagrello bianco in un habitat che vede anche la presenza di un bosco che ben favorisce grandi escursioni termiche utili e preziose per le uve. Uno spicchio di territorio nel quale la biodiversità e sostenibilità sono certamente i punti fermi.  La mia è una piccolissima cantina che fa dell’identità e alla territorialità i cardini del proprio lavoro. 

    A corollario di queste parole così appassionate di Teresa, viene spontaneo pensare che non poteva esserci nome più azzeccato per il suo primo vino che ha deciso di chiamare «Nulla è per Caso». L’etichetta riproduce una tela del maestro Luca Bellandi, artista sensibile che ha ispirato Teresa nelle scelte decisive per la sua nuova vita di vignaiola.

    Il caso non esiste, forse esiste un disegno più grande e sta a noi coglierne i segnali e agire di conseguenza, con grande coraggio. Brava Teresa, un grande in bocca al lupo. LEGGI TUTTO

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    Poggio Levante, vignaioli ai piedi del Monte Amiata

    Dice Bill Gates che se va a letto non avendo fatto niente di nuovo rispetto a ieri, un giorno è stato sprecato. Sinceramente è difficile dargli torto.

    Per chi ama il vino, per chi ne scrive, è linfa vitale non sprecare i giorni, che concretamente vuol dire assaggiare vini di cui si ignorava l’esistenza, scoprire cantine, conoscere facce nuove tra produttori, soprattutto tra quelli che si sono affacciati da poco nel grande mare magnum del mondo del vino e, proprio per questo motivo, sono animati da grande entusiasmo.

    Vivaddio, non è stato un giorno sprecato incrociare i vini di Poggio Levante.

    La cantina è situata nel cuore della Maremma di Grosseto, ai piedi del Monte Amiata e a circa 40 km dal Mar Tirreno e lavora circa tre ettari di vigneto tra i 300/350 metris.l.m. Titolare è il veneto e giovanissimo Alberto Facco, che alla precisa domanda di cosa ci fa un veneto e perché fa vino in Maremma risponde così: “Io, come la mia famiglia, sono veneto al 100%. Mio padre ha un’azienda dedita alla vendita di trattori e attrezzature agricole. Nel 2002/2003 mio padre vendette una fornitura ad un cliente di origine padovana che si trasferì a Monticello Amiata, un paese poco distante da Cinigiano. Mio padre non rimase indifferente al fascino e alla bellezza delle colline toscane e decise di acquistare un terreno, sul quale poi venne piantato il vigneto qualche anno dopo. Per i primi anni di produzione, cedemmo l’uva in cambio dei lavori agricoli necessari al corretto mantenimento del terreno. Solo dal 2018 siamo partiti con il progetto Poggio Levante, il quale unisce il territorio toscano con l’invettiva veneta per creare vini dai tratti moderni e distintivi.

    Alberto Facco

    “Il nostro obiettivo è una produzione di nicchia, in cui la ricerca della massima qualità ed espressione del binomio vitigno/terroir sia la nostra stella polare. Assieme all’enologo Guido Busatto, che ha una grande esperienza nella viticoltura biologica, Poggio Levante sta lavorando per ottenere un prodotto sempre più distinguibile. Siamo consapevoli che la riconoscibilità di un vino sia un processo lungo, ma ci stiamo impegnando per vincere questa sfida e far sì che un consumatore, quando degusta il nostro Vermentino come il Sangiovese, possa associarli al nome Poggio Levante”.

    Per Poggio Levante il vino è un’esperienza a 360°: per questo anche il packaging ha la sua importanza perché permette di comunicare un messaggio di eccellenza. La scelta di bottiglie più leggere porta a un’impronta carbonica più bassa e l’etichetta esprime personalità in coerenza con la mission aziendale: offrire prodotti nuovi ma mai snaturati dal territorio e dai varietali.

    Il ragazzo ha le idee chiare non c’è che dire, ma alla fine a parlare è sempre la bottiglia, da qui non si scappa.

    Diciamo subito che i vini di Poggio Levante sono una gran bella sorpresa. Attualmente Poggio Levante produce circa 13.000 bottiglie declinate su due tipologie di vini: il Vermentino e il Sangiovese.

    Il vino di punta è Unnè, un Vermentino non convenzionale che prende il nome proprio dall’esclamazione toscana “Unnè”, ovvero “non è quello che sembra”. Quello di Poggio Levante, infatti, vuole essere un Vermentino che sorprende per qualità, proprietà organolettiche e per l’immagine con cui si presenta, in una bottiglia renana con tappo a vite. Immesso in commercio non prima di 3 anni dopo la vendemmia come DOC Maremma Toscana, ho degustato l’annata 2019 che presenta all’olfatto decisamente intenso, di fiori e agrumi, pietra focaia, al palato è sapido e cangiante, entra di diritto nella top ten dei bianchi degustati nel 2023.

    Poi c’è Il Sangiovese Ovvìa che nasce da un vigneto situato all’interno della Denominazione Montecucco e viene imbottigliato come DOC Maremma Toscana. Il terreno è marnoso e galestroso con una buona componente argillosa. Il vigneto, gestito in regime biologico, ha un’età di 10 anni con orientamento a nord, con circa 4500 piante per ettaro e resa 50 q.li per ettaro. Ovvìa è un vino che matura in botti ovali di rovere francese da 15 hl e in vasche di cemento non vetrificato da 20 hl. Qui l’affinamento dura circa 18 mesi, più un’ulteriore sosta di minimo 5 mesi in bottiglia. La prima annata prodotta, 2018, mentre io degustato quella attualmente è in commercio ovvero l’annata 2019. Nitido e intrigante l’olfatto con note di frutta rossa, ciliegia e una delicata speziatura. Al palato è dotato di notevole balsamicità e profondità, mi tocca usa il termine “di grande bevibilità” ma non saprei come altro definirlo.

    Completa la gamma aziendale una piccola chicca, il Vermut artigianale Sergio. Il Vermut Sergio, dedicato al nonno di Alberto, porta con sé l’idea di valorizzare la qualità del Sangiovese, vino usato come base, per creare un prodotto autentico, con una forte identità territoriale. La lavorazione delle botaniche rispetta fedelmente  le caratteristiche delle piante usate, estraendo le loro note aromatiche tipiche. Tra le estrazioni alcoliche utilizzate ci sono infusi e tinture a diverse gradazioni.

    Di Poggio Levante ne sentiremo parlare, eccome se ne sentiremo parlare. LEGGI TUTTO

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    Dalla vigna all’orto, Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano

    Di Patrizia Vigolo

    La Cantina Cooperativa Vignaioli del Morellino di Scansano ha iniziato la sua storia nel 1972, fondata da viticoltori coraggiosi con l’obiettivo di promuovere i vini della Maremma Toscana a vantaggio della comunità. La cooperativa è stata tra i promotori della DOC Morellino di Scansano nel 1978, confermando la qualità straordinaria dei vini di questa regione. Nonostante le sfide di mercato negli anni ’80, la cooperativa ha investito nella qualità dei vini, aumentando la produzione e ampliando le aree di vinificazione e affinamento.

    Negli anni successivi, la Cantina ha adottato pratiche sostenibili per ridurre l’impatto ambientale, ottenendo certificazioni e partecipando a progetti innovativi. La sede è stata ristrutturata tra il 2016 e il 2018, inclusa un’area dedicata all’accoglienza.

    La Cantina è attiva nella produzione di vini provenienti da uve territoriali, tra cui Sangiovese (localmente conosciuto come Morellino), Ciliegiolo, Vermentino e Alicante.

    Etichetta solidale in edizione limitata per il progetto “L’Orto Giusto”

    La Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano, sempre attenta al territorio, ha presentato, anche per questo Natale 2023, un’etichetta “solidale” a supporto di progetti territoriali. Quest’anno la collaborazione si è stretta con il progetto de “L’Orto Giusto”, un’iniziativa di agricoltura sociale gestita direttamente da ragazzi con disabilità.

    Una parte del ricavato delle vendite della bottiglia contribuirà al progetto della Cooperativa Beata Veronica, che favorisce l’inserimento lavorativo nel settore agricolo per persone con disabilità. Attraverso la coltivazione e la cura di un orto, i giovani coinvolti hanno l’opportunità di sviluppare autonomia personale, apprendere un mestiere e sperimentare una vera inclusione lavorativa.

    L’etichetta di Roggiano Morellino di Scansano Docg è stata scelta tra i disegni realizzati dai partecipanti al progetto durante una visita in cantina. Tutte le immagini sono disponibili in una sezione appositamente dedicata sul sito della cooperativa.

    Le parole di Stefano Russo, presidente della cooperativa: “l’etichetta, disegnata da un ragazzo autistico di circa 20 anni, inizialmente molto chiuso in sé stesso Ora, frequentando l’Orto Giusto, è la stella del design per via di questa etichetta. E’ diventato molto più loquace in tutte le sue espressioni”. Da queste parole emerge in modo netto e chiaro l’amore per il progetto e per i ragazzi che lo animano. La limited edition del Morellino di Scansano Docg Roggiano è già in vendita da fine ottobre nello shop aziendale.

    La degustazione

    Capoccia

    Ciliegiolo in prevalenza

    Maremma toscana d.o.c.

    Vendemmia 2022

    Lo scopo della Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano era quello di esaltare il vitigno nella sua purezza e nelle sue caratteristiche principali: freschezza, grande bevibilità e schiettezza.

    Un vino che appena versano colpisce per la sua brillantezza, luminoso. Al naso i sentori tipici del ciliegiolo: emerge fin da subito sentori di frutta rossa matura ma ancora piacevolmente croccante.

    Al palato è fresco, diretto, non si nasconde ma si manifesta per quello che è: un vino semplice e che fa di questa sua semplicità la sua forza maggiore.

    Roggiano

    Uvein prevalenza Sangiovese

    Morellino di Scansano Docg

    Vendemmia 2022

    Questo vino appartiene alla linea “Roggiano”. I vini che ne fanno parte sono prodotti con uve provenienti da vigneti a 250/300 mt slm.

    Anche in questo caso un vino prodotto con maturazione in acciaio e affinamento in bottiglia per almeno 3 mesi.

    Al naso in questo caso emergono anche note floreali. La viola e la rosa la fanno da padrone e si affiancano ovviamente ai sentori del Sangiovese quali il mirtillo e la mora.

    Non ci sono pretese di evoluzione: un vino elegante, dai tannini sottili che sa farsi piacere già adesso.

    Al palato si capisce subito che è un vino “gastronomico”, dalla piacevole beva quotidiana.

    Roggiano Biologico

    Uve in prevalenza Sangiovese

    Morellino di Scansano Docg

    Vendemmia 2022

    Il Roggiano biologico, nascendo in una terra come la Maremma che notoriamente è una zona abbastanza salubre, nasce proprio come figlio di questo territorio.

    La provenienza delle uve è da vigneti posizionati ad altitudini maggiori, dove le rese per ettaro sono minori rispetto all’omonimo precedentemente degustato.

    Capoccia Riserva

    Uve in prevalenza ciliegiolo

    Maremma Toscana Doc

    Vendemmia 2020

    Il Capoccia Riserva matura in barrique di rovere francese per 6 mesi (40% nuove – 60% secondo passaggio) e questa permanenza si fa assolutamente sentire. Non è invadente ma fa emergere prime note speziate all’olfatto e un buon equilibrio al naso.

    Si capisce fin dal primo sorso che qui l’intento dell’azienda è quello di proporre una riserva facilmente approcciabile, lasciando quella bevibilità che fa da fil rouge in tutti i vini.

    Roggiano Riserva

    Uve in prevalenza Sangiovese

    Morellino di Scansano Docg

    Vendemmia 2020

    Un affinamento di 12 mesi in barrique e un lungo affinamento in bottiglia di circa 10 mesi. In questo Roggiano Riserva spiccano note più floreali ma arricchite da leggere note speziate dolci, quali la cannella che ben si accompagna ai sentori di sottobosco. Un vino che ha di fronte a sé una lunga evoluzione. Già ben equilibrato ma avrà bisogno di tempo per esprimersi al meglio. LEGGI TUTTO

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    Santa Maddalena: romantica collina, seducente vino

    di Luciano Pavesio

    Risalendo l’Alto Adige in direzione Austria, costeggiando in statale l’ondulare scorrere del fiume Adige, non appena oltrepassato l’abitato di Bolzano, inevitabilmente l’occhio volge lo sguardo a destra per ammirare estasiati l’assolata e romantica collina di Santa Maddalena. Nel centro si erge un piccolo borgo vitivinicolo di poche centinaia di ettari, da dove nasce l’omonimo vino, meglio noto in etichetta come St. Magdalener.

    Questo nobile uvaggio bolzanino è ottenuto da uve Schiava di diversi cloni, principalmente Schiava Grossa, Schiava Grigia e Schiava Piccola o Gentile, caratterizzate da acini grandi con un basso rapporto tra buccia/polpa, unite a un massimo di 15% di uve Lagrein, ricche al contrario di resveratrolo e tannino che conferiscono colore, struttura e complessità.  Entrambi i vitigni sono spesso coltivati nello stesso vigneto e le uve vengono raccolte e vinificate insieme, seppur il Lagrein normalmente ha una maturazione posteriore di circa una settimana, tradizione che è stata mantenuta anche nei nuovi impianti, che hanno conservato anche la coltivazione con il sistema a “pergola” che, oltre ad essere più confacente alle necessità della Schiava, contribuisce al panorama fatato di questa collina. La denominazione Santa Maddalena è piuttosto recente.

    Leopold Larche

    Nel corso di una piacevole passeggiata in compagnia di Leopold Larcher, “innamorato della Schiava” e grande conoscitore di questo territorio, apprendo che storicamente il territorio bolzanino era fonte di vino bianco, prodotto e consumato in larga parte dal Clero: basti pensare che attorno all’anno 1000 in questa zona si contavano ben 25 proprietà vescovili.

    Nel periodo medievale su questa collina, denominata “Prazöll” ovvero “piccolo piazzale pianeggiante”, dove ancora oggi sorge la chiesetta di stile romanico ricoperta al suo interno da pregiati e significativi affreschi raffiguranti la Passione di Cristo e diverse scene di vita della Maddalena, si produceva il “Leitacher”, considerato il miglior vino bianco di Bolzano.

    Tra il XVI e il XVII secolo si assistette a un deciso cambio di tendenza, con il vitigno Schiava che via via si diffuse fino a diventare la coltivazione principe di questa regione. Un fenomeno però che a partire dal 1983 ha seguito un andamento inverso, considerando che da 470 ettari vitati si è arrivati a soli 200 ettari nel 2013 per tornare a lasciare spazio a vitigni a bacca bianca, prediligendo altitudini medio alte, dai 400 fino ai 1.000 metri per contrastare le bizze climatiche degli ultimi 15 anni.

    Un fenomeno eccezionale che conversando con Larcher si è però già verificato nel corso dei secoli: in base alle sue ricerche sulle vicende storiche legate al mondo enologico in Alto Adige, apprendo che nel 1070 si coltivava la vite sul Renon ad oltre 1.000 metri per contrastare il gran caldo di quel periodo, con casi limite di una vendemmia nel 1195 operata a giugno in seguito alla fioritura della vite a fine gennaio!

    Grappoli di Schiava

    Al contrario il 27 settembre del 1579 una grande nevicata distrusse tutte le pergole, freddo glaciale registrato anche agli inizi del 1700, intervallato nel 1752 da condizioni climatiche particolarmente favorevoli che portarono a una mega produzione di uva. Altro evento singolare nel 1816, quando un inverno particolarmente lungo, con freddo intenso e parecchia neve, fece slittare la fioritura ad agosto con conseguente produzione di uva pressoché nulla.

    Le prime testimonianze del vino Santa Maddalena, al pari del Santa Giustina e del Leitach, risalgono all’inizio del XIX° secolo, definendolo come “vino pregiato e costoso del Tirolo meridionale”. Per salvaguardare la qualità e l’origine del vino di fronte alle crescenti contraffazioni, nel 1923 i vignaioli bolzanini, divenuti più autonomi nei loro masi per anni di proprietà di monasteri e nobili della Germania meridionale e dell’Austria, fondarono il Consorzio di Tutela del Santa Maddalena. Il territorio tutelato inizialmente, sotto forti pressioni del mercato, si estese, comprendendo anche le zone di Santa Giustina, Costa, San Pietro e San Genesio, fino al paesino di Settequercie, come venne sancito nel disciplinare della Doc emanato nel 1971.

    Il St Magdalener secondo la Weingut Plonerhof

    Dagli ultimi dati di produzione si evince che nell’attuale zona disciplinata una quarantina di aziende producono circa 7.600 ettolitri nei 160 ettari di Santa Maddalena D.O.C. Classico (che corrisponde al 3 % dell’intera superficie vitata in Alto Adige), mentre da un altro centinaio di ettari scaturiscono 9.200 hl di Alto Adige Santa Maddalena D.O.C.

    Degustazioni

    Al termine della nostra escursione una serie di degustazioni ci ha permesso di verificare l’attuale ottimo stato dei vini di questo territorio, a cominciare da un fresco e fruttato Alto Adige St. Magdalener Classico prodotto quasi esclusivamente con uve schiava, vinificato ed affinato solo in acciaio, della cantina Wassererhof di Fiè allo Sciliar, di recente costituzione grazie all’apporto dei gemelli Christoph e Andreas Mock che hanno ristrutturato i vecchi masi di famiglia Mumelterhof in località Costa a Bolzano e l’Hof zu Wasser (“Maso presso la sorgente”) fatto costruire in Valle d’Isarco nel 1366 dai Signori di Liechtenstein.

    Christian Plattner della tenuta Ansitz Waldgries ci ha servito uno strutturato, morbido e piacevole St. Magdalener “Antheos”, una speciale selezione che annovera diversi cloni storici di schiava, pazientemente ripiantati nel vigneto per permettere la raccolta e la vinificazione delle uve insieme con una piccola parte di Lagrein, massa che viene successivamente affinata in botte grande per alcuni mesi per levigare ed addolcire il tannino.

    Christoph Mock – Wassererhof

    Molto attiva in questa zona anche la Cantina sociale di Bolzano che propone ben tre versioni di St. Magdalener. Questa cooperativa di ben 220 soci fu costituita nel 2001 dalla fusione tra le storiche Cantina Gries e la Cantina Santa Maddalena, la prima realtà associativa che nel 1930 raccolse le uve di 18 vignaioli per cercare di estendere e perfezionare la vinificazione e commercializzazione di questo vino. Nel 2018 l’azienda si trasferisce nel quartiere di San Maurizio, nei pressi dell’ospedale di Bolzano, nella nuova spettacolare cantina, un cubo rilucente costruito a ridosso della collina dove ogni dettaglio è stato costruito per essere al servizio della qualità del vino, dal conferimento delle uve da parte dei soci alla vinificazione sfruttando i diversi livelli dell’edificio fino al silenzioso caveau di affinamento, tutto sotto la regia attenta dell’enologo Stefan Filippi.

    La versione “base” di Sudtirol St. Magdalener Classico viene prodotto in diverse centinaia di migliaia di bottiglie mantenendo pulizia, tipicità e facilità di beva. La complessità e la persistenza aumentano decisamente degustando la selezione Huck am Bach, frutto di uve schiava e lagrein provenienti dall’omonimo maso.

    Da un paio d’anni la linea di Santa Maddalena si è arricchita della selezione Moar, dove la percentuale di lagrein sfiora il 15% regalando maggior corpo e rotondità al vino, con aromi di frutta fresca croccante per nulla intaccati dall’affinamento in botti grandi di rovere.

    Molti sono i giovani, quasi sempre figli di viticoltori che fino a pochi anni fa conferivano le uve alle cantine sociali, che spinti dagli studi enologici hanno affrontato la sfida di mettersi in proprio per confrontarsi con l’intera filiera enologica, dalla vite alla commercializzazione. Tra di loro ho particolarmente apprezzato la speziata selezione “Rondel” di Franz Gojer e di suo figlio Florian, frutto di una lunga fermentazione in botte grande di rovere e la pepata versione Classico della tenuta Weingut Plonerhof della famiglia Geier.

    Colpisce la balsamicità, con note di liquirizia dolce, della selezione Reisegger della Tenuta Egger Rahmer, da un vigneto misto di schiava e lagrein fino al massimo del 15% coltivata nel cuore della collina bolzanina, e nel Classico della storica azienda Obermoserhof di Heinrich e Thomas Rottesteiner.

    Ingresso dell’azienda Erbhof Unterganzner

    Nitido e netto il Classico con leggeri torni affumicati e di spezie fini della tenuta Erbhof  Unterganznerhof, gestito da più di 25 anni da Josephus Mayr, uomo che ha speso molti anni della sua esistenza a favore della sua regione.

    Sentori di frutta rossa e piccoli frutti di bosco, lampone e more, nei freschi e invitanti St. Magdalener dell’azienda Untermoserhof di Georg Ramosere degli storici masi Kandlerhof di Martin e del figlio Hannes Spornbergere Pfannenstielhof  di Johannes Pfeifer,confinanti con la chiesetta dedicata a Santa Maddalena, uno dei luoghi simbolo di uno dei tesori dell’inestimabile e ineguagliabile patrimonio enologico della nostra Penisola.

    credit photo: la foto di Christoph Mock è tratta dalla pagina Facebook di Wassererhof LEGGI TUTTO