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    Rosso di Montalcino, il vino del libero arbitrio

    Il Rosso di Montalcino DOC è la denominazione di ricaduta della celeberrima DOCG Brunello di Montalcino. Si definiscono informalmente “di ricaduta” quelle DOC o IGT, solitamente di estensione uguale o superiore alle altre insistenti sullo stesso territorio, in cui, per l’appunto, “ricadono” vini: che per qualsiasi motivo hanno subito un declassamento rispetto alla DOC o DOCG più nobile del territorio; che sono concepiti per rappresentare la versione più giovane e immediata della DOC o DOCG più nobile del territorio; per i quali il produttore ha volutamente rifiutato di reclamare la DOC o la DOCG più nobile del territorio.

    Questa alquanto esaustiva spiegazione del termine “di ricaduta” l’ho tratta dal sito italvinus.it. A ben guardare, se ci si sofferma sul senso di alcune parole come declassamento, rifiutato, giovane, immediato, verrebbe da pensare che i vini che rientrano in questa denominazione non siano poi di un livello particolarmente eccelso e che non potranno mai ambire al rango di grandi vini, prerogativa riservata per l’appunto solo alla DOCG più aristocratica del territorio.

    Non è così per il Rosso di Montalcino, anzi, dopo aver partecipato alla degustazione che celebrava il quarantennale della nascita della DOC Rosso di Montalcino, tenutasi nell’ambito della manifestazione Red Montalcino, ho avuto la netta sensazione che i produttori di quell’areale, uno dei più vocati al mondo, si trovino di fronte una bella gatta da pelare in termini di promozione e posizionamento del prodotto perchè la qualità del Rosso di Montalcino è complessivamente molto elevata, ma non solo, può essere un vino molto longevo, in definitiva si possono aprire delle grandi bottiglie, quindi come la mettiamo con il Brunello?

    Paradossale?potrebbe essere, ma basti citare, a titolo di esempio, il Rosso di Montalcino Poggio di Sotto 2009 che inserito alla cieca in una batteria di Brunello monumentali, darebbe filo da torcere anche al degustatore più esperto che certamente farebbe fatica a riconoscerlo come Rosso di Montalcino.

    Avercene di questi problemi, si dirà, e in effetti pochi terroir al mondo sono baciati da cotanta fortuna. L’unico rischio di trasformare un’opportunità in una minaccia è quello di comunicare in maniera sbagliata il Rosso di Montalcino. Ad esempio, mi trova un po’ freddo l’idea che la promozione possa concentrarsi principalmente su un determinato target di consumatori, nello specifico i giovani.

    Credo sia un errore proprio perché significherebbe ridurne gli orizzonti, facendolo vivere ancora all’ombra del vino mito, il Brunello. Invece, il Rosso di Montalcino è ormai pronto per vivere di luce propria. Potrebbe invece essere, in puro stile bordolese, una sorta di “second vin” che farebbe felici appassionati (giovani e meno giovani) che vogliono stappare e bere un’ottima bottiglia, che può essere anche grande come abbiamo detto.

    A tal proposito, sempre pescando dai ricordi della degustazione del quarantennale, cito Fattoria del Pino 2015, Sesti 2016, Banfi Poggio alle Mura 2016, Poggio Antico 1993. Bottiglie che, comprate appena uscite sul mercato, viaggerebbero a prezzi più contenuti rispetto ai Brunello delle stesse aziende, salvo poi, per chi ha voglia di aspettare, ritrovarsi dei veri e propri tesori tra le mani.

    Vino del libero arbitrio il Rosso di Montalcino, definito così con una felice intuizione da Barbara Di Fresco, giornalista di RaiNews24, moderatrice del convegno di apertura del quarantennale della denominazione denominazione che ha visto la partecipazione di Enzo Tiezzi, past president del Consorzio del vino Brunello di Montalcino e ‘padre putativo’ del giovane Rosso, Andrea Costanti tra gli artefici del successo commerciale di questo vino e Francesco Ripaccioli, produttore e nipote del primo presidente l’ex Consorzio del Rosso poi confluito nell’ente consortile unitario a metà degli anni ‘90, Primo Pacenti. Del libero arbitrio si diceva perché decidi tu quando berlo, giovane appena esce sul mercato, oppure dopo averlo dimenticato per qualche anno in cantina. La certezza è che, qualunque sia la tua decisione, il Rosso di Montalcino non ti deluderà mai, caratteristica non comune a tutti i vini, ne converrete.

    Se i Rossi di Montalcino sono singol vineyard, se vengono da un cru, di per sé, avrebbero identità più marcata, perché l’elemento ossigeno essendo meno presente va a piallare un pochino meno gli elementi descrittivi dei luoghi. Teoricamente un Rosso di Montalcino per quanto sia considerato da sempre non un figlio di un dio minore, ma un secondo vino rispetto al Brunello, in realtà il segreto dell’identità dei luoghi è forse un po’ più marcato su un rosso di Montalcino che su un Brunello perché c’è un elemento omologante che si chiama ossigeno che è meno presente.

    (Roberto Cipresso)

    Per chi volesse approfondire  l’impatto sul mercato del Rosso di Montalcino, riporto un estratto della relazione dell’Osservatorio UIV

    Il Rosso di Montalcino è tra quelle denominazioni ancora in grado di produrre crescita in un contesto internazionale certamente complesso per la tipologia. Il vino ilcinese si inquadra in una domanda ancora reattiva per i prodotti dalla forte identità, ancorata a territori di grande riconoscibilità, territori/brand come vengono definiti, ma soprattutto prodotti in grado di trasmettere una immagine più contemporanea di sé e del loro ambiente.

    La dimostrazione plastica la si trova nella costante crescita dei prezzi medi del Rosso, con posizionamenti ben consolidati sui segmenti più profittevoli (Horeca) e allargamento delle vendite verso fasce di prezzo a più alto valore aggiunto

    Nel 2023 i prezzi medi hanno registrato aumenti importanti: +10% sul mercato interno, sopra la media nazionale, e +5% all’estero.

    Molto interessanti – e spia comunque di una denominazione in salute dal punto di vista della reputazione – è la dinamica dei prezzi medi di vendita: negli ultimi tre anni si è avuta una forte decrescita della fascia cosiddetta “basic” (fino a 8 euro/bottiglia, franco cantina), passata dall’80% al 52%, con contemporanea crescita delle fasce superiori: quella da 8 a 10 euro ha raddoppiato il proprio peso, portandolo al 35% di share, così come ha fatto la fascia 10-15 euro, che è arrivata al 5% di quota.

    I prodotti ad altissimo valore (sopra i 15 euro la bottiglia) costituiscono un piccolo cameo, che vale circa il 3% delle vendite. Il trend del 2023 conferma questa “premiumizzazione” del prodotto: calo significativo della fascia basic (-35%), aumenti rispettivamente del 16% e 47% per quelle tra 8-10 e 10-15 euro.

    Fino al 2022 per le vendite di Rosso di Montalcino Doc la parte preponderante era costituita dal mercato domestico, con una quota volume/valore pari al 55%. Il 2023, a fronte di una diminuzione più netta del mercato nazionale, ha segnato un ribilanciamento delle vendite all’estero, che hanno aumentato il loro peso arrivando al 47% sul totale.

    Il Rosso di Montalcino è venduto in oltre 90 Paesi. Secondo i dati dell’Osservatorio Economico del Consorzio, circa il 40% del valore delle vendite viene generato dal mercato statunitense, seguito dal Canada (14%), per un’incidenza totale del blocco Nordamerica pari al 51%. I Paesi di seconda fascia sono tutti europei, con in testa Germania (6%), Svezia (5%), UK (4%) e Norvegia (1%).

    Eccettuata la Svezia, tutti i principali mercati sono in una fascia di prezzo superiore agli 8 euro/bottiglia (prezzo franco cantina).

    Nei primi 4 mesi di quest’anno, segnala l’Osservatorio Uiv su base SipSource, i consumi negli Usa del Rosso di Montalcino sono cresciuti, in netta controtendenza con il mercato complessivo (i rossi italiani segnano un -8%), del 4,5%. LEGGI TUTTO

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    Amalberga, rinasce la DOC Ostuni

    Dario De Pascale, socio fondatore di Amalberga, durante il webinar di presentazione dei vini della sua cantina, ripete questo concetto più volte, come un mantra: “Abbiamo deciso sin dall’inizio di questa avventura, più di dieci anni fa, che saremmo usciti sul mercato solo quando i nostri vini fossero stati veramente pronti”. Scelta coraggiosa in un’epoca in cui vige il tutto e subito, dove la capacità di saper attendere invece che essere vissuta come una virtù è vissuta spesso come un disagio.

    Dario De Pascale

    E pensare che tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, per fare un parallelo con la musica, le case discografiche aspettavano almeno fino alla pubblicazione del terzo long playing/CD per poter decretare il successo o l’insuccesso di un’artista, tanto per dire, se non fosse stato così, ci saremmo persi Lucio Dalla. Di questi tempi, se non sforni almeno un tormentone al mese duri una stagione al massimo, tutto questo a scapito della qualità media della produzione musicale, oggi davvero scarsa. Tornando al vino e ad Amalberga, la dimensione dell’attesa che ha animato Dario De Pascale e i suoi soci (amici) Roberto Fracassetti e Roberto Candia, con la collaborazione degli enologi Valentino Ciarla e Gloria Battista, grazie anche alla forte volontà di far rinascere la DOC Ostuni, ha prodotto risultati davvero notevoli.

    Gloria Battista

    Vini davvero intriganti quelli di Amalberga, confesso di essermene innamorato perché sono l’esempio lampante di quello che dovrebbe essere il vino oggi, che con un termine un po’ abusato potremmo definire moderno ma tant’è. Il segreto dei vini di Amalberga, se di segreto possiamo parlare, è di essere semplici dove per semplicità si intende essere dotati di una bevibilità estrema associata a una capacità innata di accompagnare il cibo, essere gastronomici come si dice in gergo. Il bello però è questi stessi vini presentano tratti di grande originalità, eleganza e anche complessità, mi riferisco in particolare ai due bianchi Stùne e Icona d’Itria, anche dotati di grande capacità di reggere il tempo. L’Ottavianello Ostuni Rosso, invece, è il vino che vorrei trovare tutti i giorni sulla mia tavola, anche d’estate, leggermente fresco è davvero irresistibile.  

    La cantina e il territorio della DOC Ostuni

    Il nome della cantina si ispira alla monaca belga Amalberga di Temse, nota come santa nelle Fiandre e protettrice di agricoltori e marinai. Amalberga ha compiuto un lavoro meticoloso sui vigneti già esistenti e su nuovi piccoli appezzamenti seguendo i dettami dell’agricoltura biologica. Negli 11 ettari di proprietà e nei restanti 12 di aziende collegate si allevano le viti di francavilla, impigno, minutolo, bianco D’Alessano, primitivo, verdeca, ottavianello, susumaniello, aleatico e negroamaro.

    Tra questi spiccano i vigneti storici di primitivo, risalente al 1952, di verdeca, con alberelli di oltre 60 anni, e di negroamaro, con un’età media di 55 anni. Nonostante il debutto ufficiale avvenuto a Vinitaly 2024 e il completamento della struttura programmato sempre per l’estate 2024, il progetto Amalberga inizia nelle campagne ostunesi più di 10 anni fa con obiettivi chiari e innovativi per la denominazione e per il territorio: la creazione diun’azienda vitivinicola contemporanea nei vini, nell’architettura e nell’accoglienza.

    La storia della Doc Ostuni

    Istituita nel gennaio 1972 per riconoscere e normare la vocazione vitivinicola del territorio e gestita sin dal principio dalla cantina cooperativa di Ostuni, la denominazione include nel disciplinare Bianco di Ostuni – che vede l’impiego di uve impigno, francavilla e verdeca – e Ottavianello di Ostuni, che oltre a quest’ultimo prevede il notardomenico e in piccola parte il negroamaro, il susumaniello e il primitivo.

    Nonostante la tutela riservata all’area ostunese, gli incentivi all’espianto dei vigneti, gli scandali dell’enologia italiana negli anni Ottanta e politiche nazionali e comunitarie poco lungimiranti hanno portato alla estirpazione della quasi totalità della superficie vitata di Ostuni e della valle d’Itria, che contava oltre 4000 ettari vitati. Un danno consistente per il territorio, per il comparto vitivinicolo e per la Doc Ostuni che è sopravvissuta solo grazie al lavoro della famiglia Grecoche con un solo ettaro di proprietà ha rivendicato ogni anno la denominazione.

    OggiAmalberga, attraverso il suo progetto e i suoi vini, punta a raccontare e valorizzare questo territorio affinché abbia la posizione che merita nel panorama vitivinicolo regionale.

    I Vini degustati

    Il progetto Amalberga nasce con l’obiettivo di riscoprire la denominazione Doc Ostuni, un territorio straordinario, ma dal potenziale inespresso.

    Stùne DOC Bianco Ostuni 2023: la semplicità è una cosa complessa dice l’enologo Valentino Ciarla durante il webinar, perfetta sintesi di questo vino ottenuto 50% da uve impigno e 50% da uve francavidda. Naso delicato e al tempo stesso avvolgente di frutta agrumata e fiori. Al sorse è fresco sapido, dinamico, piacevolezza unita ad eleganza.

    Icona d’Itria IGT Salento Verdeca 2023 la Puglia attuale, senza dimenticare da dove si viene. Questa verdeca in purezza ottenuta da vigneti di oltre sessant’anni è di una espressività disarmante. All’olfatto è un vino di grande complessità, frutta fresca e agrumata ma anche delicate note vegetali. Al sorso è elegante, pieno, espressivo, finale lungo e avvolgente. Un vino di grande longevità, mi aspetto grande soprese per il futuro.

    Stùne Ottavianello DOC Ostuni Rosso 2023: da uve ottavianello, è il vino che vorrei trovare tutti i giorni sulla mia tavola, anche d’estate, leggermente fresco è davvero irresistibile, dicevo sopra. All’olfatto profumi di frutta rossa di grande piacevolezza, al palato è dinamico e succoso, da bere e da ribere. LEGGI TUTTO

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    I sessant’anni del Consorzio Collio: Il Collio è vivo, evviva il Collio

    Il 31 maggio del 1964, 152º giorno dell’anno secondo il calendario gregoriano, la luna si trovava nell’ultimo quarto, e le radio trasmettevano in continuazione le note di È l’uomo per me di Mina e di Love Me Do dei Beatles. Nei cinema, Sedotta e abbandonata di Pietro Germi smuoveva coscienze e sbancava al botteghino. Il 31 maggio 1964 era una domenica, giorno inusuale per la firma di un atto notarile, ne converrete. Ma, ça va sans dire, il motivo era sicuramente da ricercare nella necessità di non sottrarre tempo prezioso al lavoro in un giorno feriale.

    Ebbene, proprio in quella data di 60 anni fa, si firmava l’atto costitutivo del Consorzio Collio. Il primo presidente, nonché deus ex machina di tutta l’operazione consorzio, fu il conte Douglas Attems. Il conte, che proprio in quel periodo aveva iniziato a imbottigliare i suoi vini, compattò attorno a sé un gruppo di produttori con l’intento di arrivare il prima possibile all’ottenimento della DOC. Attems, a seguito della promulgazione della Legge 930 del 1963 che sanciva la nascita delle Denominazioni di Origine Controllata, ne aveva intuito l’importanza e la necessità di arrivarci al più presto, perché questo avrebbe significato prestigio e riconoscimento per quelle dolci colline che circondano Gorizia e che sarebbero poi diventate il Collio.

    Le botti dipinte della Cantina Produttori di Cormons

    Il conte soleva iniziare il suo discorso, quando parlava con qualcuno di vino, con una frase che era una sorta di manifesto programmatico: “…vede, noi del Collio…”. In quelle parole c’era la necessità di esibire tutta la grandeur che Attems, con un senso di preveggenza, attribuiva a quella piccola denominazione dalla quale sarebbe ripartita poi, grazie a pionieri come Mario Schiopetto e Marco Felluga, la rinascita del vino bianco italiano.

    Lo staf del Consorzio Collio con al centro il presidente David Buzzinelli e la direttrice Lavinia Zamaro

    Sessant’anni fa, si diceva, numero tondo, motivo di orgoglio e di festa per il Consorzio Collio, guidato oggi dal presidente David Buzzinelli e dalla direttrice Lavinia Zamaro, che hanno voluto celebrare la ricorrenza con un evento dedicato alla stampa e agli amici di sempre, proprio nello stesso giorno della firma dell’atto costitutivo, che ha avuto il suo momento clou con la masterclass “Assaggi di storia del Collio”. Occasione ghiotta per fare il punto dello stato di salute della denominazione grazie anche alla sapiente guida dell’ottimo Michele Paiano, sommelier per più di un ventennio de La Subida di Cormons.

    Michele Paiano

    La degustazione è stata una sorta di percorso nel bicchiere, attraversando il Collio di ieri e di oggi in tre momenti: Il Collio oggi, ovvero Ribolla Gialla 2022, Pinot Grigio 2022, Friulano 2021, Sauvignon 2023, Collio Bianco 2022. La longevità del Collio Bianco con una degustazione orizzontale di cinque annate dalla 2013 alla 2018 e Il Collio Rosso con degustazione delle annate 2008, 2012, 2013, 2018.

    Diciamo subito che la denominazione è in grandissima forma. Dopo il periodo di stanca di qualche anno fa, ricordo ancora le parole di Marco Felluga al Premio Collio del 2014, quando l’allora past president lanciò un grido d’allarme ritenendo che il Collio stesse perdendo appeal. Oggi, quel fascino, che si traduce in grandi vini nel bicchiere, è stato ritrovato quasi del tutto, soprattutto negli assaggi di Friulano, Sauvignon, Pinot Grigio e Pinot Bianco, anche se quest’ultimo non era presente tra i vini della masterclass; forse è la sola Ribolla Gialla a non esprimersi ancora su grandi livelli, ma questo discorso meriterebbe un approfondimento.

    Ovviamente non sto parlando della Ribolla Gialla di Oslavia perché quello è un microcosmo a sé. Su ottimi livelli anche il Collio Rosso. In questo caso parliamo di cabernet franc, cabernet sauvignon e merlot, ovvero i vitigni che vanno a comporre gli assemblaggi dei vini degustati. I vitigni bordolesi, che ormai potremmo definire autoctoni, in Collio si esprimono su grandi livelli, è un dato incontrovertibile. La vera perla identitaria, se così si può definire, resta però il Collio Bianco e qui si apre un discorso piuttosto delicato.

    Alcuni sono convinti che il territorio sia talmente espressivo da prevalere sempre sulla varietà e pertanto per fare il Collio Bianco, anche per non destabilizzare il consumatore, ha senso utilizzare tutte le uve a bacca bianca previste dal Disciplinare: chardonnay, malvasia istriana, picolit, pinot bianco, pinot grigio, riesling italico, riesling renano, ribolla gialla, sauvignon, friulano e con un massimo del 15% degli aromatici traminer e müller thurgau. Invece, per quanto mi riguarda, trovo molto più affascinante l’idea di ottenere il Collio Bianco solo da uve autoctone.

    Mappa del Collio

    Già nel 2017 mi appassionò l’idea, purtroppo poi tramontata, del Collio Bianco Gran Selezione, che doveva essere realizzato con le varietà autoctone storiche: friulano (dal 40% al 70%), ribolla gialla (max 30%) e malvasia (max 30%). Sembrava che questo progetto dovesse trovare la strada spianata grazie all’approvazione del nuovo Disciplinare che prevedeva, tra l’altro, oltre al recupero dell’uvaggio storico, l’uscita sul mercato dopo almeno 24 mesi d’invecchiamento e con una riconoscibilità evidente dovuta alla “Bottiglia Collio”, pensata qualche anno prima da Edi Keber.

    Era l’idea vincente per riposizionare il Collio tra i grandi terroir del mondo. Come spesso succede, quando si tratta di mettere d’accordo più teste che la pensano in modo diverso, l’idea rimase al palo, preferendo il mantenimento dello status quo. In realtà, questo pensiero non ha mai abbandonato un manipolo di produttori che in quel disegno, marcatamente identitario, vedevano e vedono una straordinaria possibilità per il rilancio del Collio tout court e che hanno dato vita, per l’appunto, al progetto “Collio Bianco da uve autoctone”.

    Il convegno “Collio, un viaggio lungo 60 anni”

    Nessuno mette in dubbio che in Collio gli internazionali diano grandi vini e che questi già trovino e possano continuare a trovare in futuro la loro strada nella DOC; ma alla fine qual è il vero tratto distintivo del Collio? Non può bastare il solo fatto che qui si facciano grandi vini bianchi. In una fase piuttosto delicata del comparto vino, e con altri areali sia italiani che internazionali pronti ad insediare il primato bianchista del Collio, è necessario distinguersi, è necessario essere unici e il Collio Bianco ottenuto da sole uve autoctone con l’uvaggio tradizionale (friulano in prevalenza, malvasia e ribolla gialla) va sicuramente in questa direzione.

    Il termine tradizione deriva direttamente dal sostantivo latino “traditio”, il cui primo significato era “consegna”; si legava infatti al verbo “trado” che voleva dire appunto “consegnare, porgere, trasmettere”. Spesso capita che la parola tradizione sia associata a una sorta di immobilismo, di conservatorismo; in realtà è vero l’opposto. Tradizione significa trasmettere ad altri affinché vadano avanti, nel percorso di vita che gli spetta, senza fermarsi e così all’infinito.

    Il Collio è vivo, evviva il Collio! LEGGI TUTTO

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    Kalòs e Kagathòs: La Filosofia di Avignonesi tra Bellezza e Nobiltà d’Animo

    di Patrizia Vigolo

    Nel cuore della meravigliosa campagna toscana, la Cantina Avignonesi è diventata un simbolo di sostenibilità e innovazione nel mondo vinicolo.

    Nata nel lontano 1974 come azienda agricola, Avignonesi ha progressivamente ridefinito il proprio scopo, evolvendo da semplice produttore di vino a un leader nel settore della “buona industria vitivinicola”.

    Nel 2009 la cantina ha subito una trasformazione significativa quando è stata acquistata da Virginie Saverys. Da allora, Avignonesi si è distinta non solo per i suoi vini eccellenti, ma anche per il suo impegno verso l’agricoltura biologica e biodinamica, ponendosi come leader nell’industria vitivinicola sostenibile.

    Lavorare per un futuro migliore

    La filosofia di Avignonesi può essere riassunta nel concetto di kalòs e kagathòs, termini dell’antica Grecia che uniscono il bello (kalòs) e il buono (kagathòs), esprimendo una profonda coerenza tra etica ed estetica. Questo concetto sottolinea che per essere veramente “belli”, i prodotti e le azioni devono essere intrinsecamente buoni e giusti. In pratica, questo significa che la qualità estetica dei vini e delle esperienze offerte deve essere accompagnata da un impegno etico e sostenibile.

    Produrre vini nobili significa anche comportarsi in maniera nobile, rispettando la terra, le persone e la comunità di Montepulciano. Questo impegno si riflette nella missione dell’azienda di nutrire la terra e le persone, creando un mondo migliore per le generazioni future.

    Vigneto “La Stella”

    Ecco perché sotto la guida di Virginie Saverys, Avignonesi ha adottato pratiche agricole biologiche e biodinamiche, riconosciute formalmente nel 2021 con il riconoscimento di Società Benefit. L’azienda utilizza tecniche che migliorano la salute del suolo e la biodiversità, minimizzando l’impatto ambientale e producendo vini di qualità superiore. Questa dedizione alla sostenibilità si estende anche ai sistemi distributivi e all’educazione del consumatore, con un approccio trasparente e innovativo.

    “Lavorare ogni giorno per diventare un buon antenato: Questa frase rappresenta il cuore della filosofia di Avignonesi. Significa impegnarsi quotidianamente per lasciare un’eredità positiva e sostenibile, non solo per la propria generazione, ma per quelle future. Questo approccio si riflette in ogni scelta aziendale, dalla gestione dei vigneti alla produzione dei vini, fino alle pratiche di ospitalità e distribuzione.

    Matteo Giustiniani_Amministratore Delegato del Gruppo Avignonesi

    La scelta di abbracciare l’agricoltura biologica e biodinamica non è quindi solo una decisione tecnica, ma un impegno etico. La biodinamica, in particolare, va oltre il biologico, considerando la fattoria come un organismo vivente che deve essere autosufficiente e sostenibile. Questo significa evitare pesticidi e fertilizzanti chimici, promuovere la biodiversità, e utilizzare preparati naturali per migliorare la salute del suolo e delle piante.

    Vini d’eccellenza, frutto di passione, rispetto e competenza

    Avignonesi raggruppa vigneti, un orto sinergico, oliveti, bosco e seminativo. I vigneti occupano circa 170 ettari in cui si coltivano principalmente Sangiovese, Merlot, Trebbiano e Malvasia.

    Da queste uve nascono vini di pregio, che narrano la storia del territorio e la dedizione di Avignonesi. Tra le eccellenze spiccano il Vino Nobile di Montepulciano, un prestigioso DOCG che incarna l’essenza stessa della cantina, e il Vin Santo Occhio di Pernice, un vino dolce e avvolgente che rappresenta la quintessenza della tradizione enologica toscana.

    Inoltre, l’azienda possiede 7 ettari di oliveti, un orto sinergico su una superficie di 0,5 ettari (un metodo di coltivazione che sfrutta la sinergia tra le piante e gli elementi naturali), 43 ettari di bosco e 48 ettari di terreni seminativi.

    Un vino che ci ha particolarmente colpiti è stato il “Vino Nobile di Montepulciano D.O.C.G. 2013” 10 Year Vintage Release.

    Uve 100% Sangiovese. Fermentato, invecchiato, imbottigliato e conservato con cura nella cantina di Avignonesi. La fermentazione alcolica con macerazione sulle bucce dura da 20 a 30 giorni, variando a seconda dei singoli lotti di vino. Questo processo è condotto dai lieviti selezionati dal pied de cuve dell’azienda. Il vino è poi affinato per 12 mesi in barrique francesi, seguiti da 6 mesi in botti di rovere di Slavonia, e infine riposa per almeno 8 anni in bottiglia, sviluppando così la sua complessità e profondità aromatica.

    Il colore è di un intenso rosso rubino. Al naso, il bouquet è elegante e complesso, iniziando con note floreali di viola mammola e rose selvatiche, seguite da sentori di prugna, marasca e frutta rossa. Nonostante si tratti di un 2013, i sentori fruttati sono ancora freschi ma accompagnati da sfumature di goudron, liquirizia, caffè e cacao. Al palato, il vino si presenta rotondo e fresco, ben strutturato e di lunga persistenza, con piacevoli note balsamiche in chiusura.

    E’ una incantevole combinazione di aromi che conferma ancora una volta la capacità del Sangiovese di evolvere in maniera iconica.

    Classica Day: un evento dedicato agli appassionati Ogni anno, nel mese di marzo, Avignonesi organizza il Classica Day, un evento dedicato agli operatori del settore e agli appassionati di vino. Un’occasione per scoprire le ultime novità della cantina, degustare i migliori vini e approfondire la conoscenza del territorio e della filosofia produttiva di Avignonesi. L’edizione 2024, svoltasi il 17 e 18 marzo, ha visto la partecipazione di 450 persone, che hanno potuto apprezzare l’eccellenza dei vini Avignonesi e vivere un’esperienza unica nel cuore della Toscana.

    Le due giornate sono state caratterizzate da attività specifiche pensate per favorire il dialogo e promuovere una viticoltura di qualità. La cena di gala, ospitata nell’Appassitoio de Le Capezzine, uno dei luoghi più emblematici del Gruppo Avignonesi, si è aperta con delle bollicine, sia alcoliche (Clarabella 180) che virtuosamente analcoliche (French Bloom Rosé). La serata è poi proseguita con la degustazione dei vini di Avignonesi, tra cui il Dadi Rosso 2022, un vino che rappresenta un ponte verso il futuro e l’innovazione.

    Successivamente, è stato servito il Vino Nobile di Montepulciano del 2010, una delle icone del gruppo e della denominazione, un 100% Sangiovese proveniente dalla riserva storica di Avignonesi.

    La cena è culminata con il Vin Santo Occhio di Pernice 2010, una gemma rara e preziosa. Color ambra con riflessi dorati. Al naso, il vino si rivela avvolgente ed estremamente complesso, con sentori di miele, castagna, mandorla, marmellata d’arancia, datteri ed albicocca. In bocca emergono note di mandorla tostata, amaretto, noce fresca e fico secco. Il vino è caldo e piacevole, con un finale lungo e persistente.

    La giornata del 18 marzo è stata altrettanto ricca di eventi, iniziando con una masterclass dedicata al “Desiderio” Toscana Merlot Igt nelle annate 2017 e 2018.

    Il “Desiderio” 2017 ha un impatto olfattivo è esplosivo. Il bouquet aromatico, ampio e complesso, spazia dalla confettura di ciliegie e prugne a note di tè nero, rabarbaro e grafite, con lievi accenni finali di tabacco fermentato. L’ingresso al palato è prorompente, investendo i sensi con la tipica e imponente struttura del Merlot toscano, avvolgente e calorosa.

    Il “Desiderio” 2018 invece fa sicuramente emergere maggiormente la parte fruttata e in secondo piano emergono alcune spezie più dolci. Note fresche di frutti di bosco, mirtillo e lampone si intrecciano con delicate sfumature di spezie dolci come lo zafferano e il cardamomo, arricchite da fresche note di erbe mediterranee e pino marittimo. Al palato, il vino si presenta morbido, corposo, rotondo e ben strutturato, con tannini setosi e un retrogusto persistente arricchito da un tocco di cioccolato fondente.

    “Piantiamo gli alberi sotto la cui ombra non ci siederemo mai”.

    (Antico Proverbio) LEGGI TUTTO

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    Vini Naturali in vetrina: VinNatur 2024 a Gambellara

    Di Patrizia Vigolo

    La 19ª edizione del VinNatur Tasting, tenutasi a Gambellara (Vicenza) dal 13 al 15 aprile 2024, ha confermato il suo successo come uno degli eventi di riferimento per gli appassionati di vino naturale in Italia e all’estero. Entrare al VinNatur è come varcare una soglia verso un mondo parallelo, fatto di etichette vintage, altre più pop, e altre ancora così originali da sfidare qualsiasi classificazione.

    Oggi parlare di vino naturale non è più come in passato: ancora non esiste una definizione ufficiale ed univoca, ma il grande pubblico e soprattutto i produttori hanno le idee chiare su cosa significhi “bere naturale”. Il vino naturale deriva da metodi di lavoro che prevedono il minor numero possibile di interventi in vigna e in cantina, e l’assenza di additivi chimici e di manipolazioni da parte dell’uomo.

    Angiolino Maule, tra i pionieri di questa filosofia, oggi si mostra ancora più convinto della strada intrapresa ma con un passo in avanti. Durante una delle masterclass organizzate al VinNatur, ha sottolineato che un vino deve essere naturale ma allo stesso tempo deve rispettare i canoni della qualità: non deve presentare odori sgradevoli e, in generale, deve avere correttezza gusto-olfattiva.

    Ai banchi d’assaggio, oltre 200 produttori provenienti da Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Ungheria, Slovenia e Repubblica Ceca hanno offerto un’ampia panoramica del mondo del vino naturale.

    Angiolino Maule

    In questa edizione del 2024, il VinNatur ha proposto Masterclass estremamente interessanti. Queste lezioni hanno affrontato argomenti concreti che hanno suscitato interesse sia tra gli addetti ai lavori che tra gli appassionati.

    Una delle Masterclass più interessanti è stata quella intitolata “Alterazioni microbiologiche dei vini”, tenuta da Giacomo Buscioni. Durante la degustazione, è stato possibile assaggiare vini opportunamente modificati per comprendere le principali alterazioni organolettiche di origine microbiologica e le loro caratteristiche più comuni.

    Per approfondire la conoscenza del vino naturale, l’attività migliore è stata ovviamente degustare e chiacchierare con i produttori presenti alla manifestazione. Sono stati tanti gli assaggi, i nuovi incontri e le conferme, ma sarebbe impossibile raccontare tutto. Ecco quindi il nostro podio, i migliori 3 assaggi della manifestazione VinNatur 2024:

    Reyter – Trentino Alto Adige

    Ci troviamo nella zona di Caldaro/Termeno e sicuramente ciò che caratterizza maggiormente la cantina Reyter è il vitigno Schiava. La Schiava è un solitamente un vino che amo definire “vivace”: vitigno autoctono dell’Alto Adige con una storia alle spalle che risale a prima del ‘500. La sua leggerezza è il suo punto forte. Una trama di tannini moderati ma ben presenti. Al naso emergono le tipiche note di violetta e frutti di bosco. Proprio questa sua leggerezza lo rende un vino versatile: adatto agli aperitivi ma anche come tutto pasto.

    Röck – Alto Adige

    Una cantina familiare che produce circa 30.000 bottiglie. Abbiamo parlato con Carmen, la figlia. Spirito esuberante che ben rappresenta l’amore per ciò che la famiglia produce e per il territorio dove vive. La Valle Isarco è la regione vitivinicola più a nord dell’Italia, dove il clima è decisamente più fresco rispetto al resto dell’Alto Adige. Viel Anders, annata 2020 è uno dei vini che abbiamo degustato. E’ un vino che parla davvero di Carmen. Esuberante, profondo ma che si esprime con una leggerezza che colpisce. Si è subito sentita al naso gli effetti dell’estate calda del 2020 ma che sono stati magistralmente gestiti grazie ad una vendemmia leggeremente anticipata per riuscire a mantenere la freschezza.

    Štemberger – Slovenia

    Non potevamo non degustare la Vitovska di Štemberger, vino simbolo della terra slovena. Un vino che sa impressione per l’eleganza. I sentori sono netti, ben delineati e su tutti emergono le note agrumate. Un’immagine chiara balza agli occhi quando degusti questo vino: senti la durezza del Carso e la leggerezza della brezza marina dell’Adriatico mescolata alla fredda Bora. Una visione che si trasforma in un sorso fresco, minerale e intenso. LEGGI TUTTO

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    Franciacorta: ci sono novità

    Un territorio ad alta vocazione spumantistica, come può essere la Franciacorta, diviene davvero realtà compiuta a livello qualitativo, e pertanto tra i punti di riferimento a livello internazionale per tipologia, quando durante le degustazioni non sono più solo i nomi dei “soliti noti” a stupire, ma sono proprie le cantine meno blasonate o poco conosciute a presentare referenze di livello davvero sorprendente. È il caso di due aziende in particolare per le quali ho perso letteralmente la testa e devo dire che non mi succedeva da tanto, sto parlando di Corte Aura e Terre D’Aenòr. Come prima cosa collochiamo nel territorio franciacortino le due cantine: Corte Aura si trova a Adro mentre Terre D’Aenòr a Provaglio d’Iseo. Prima di addentrarci nel dettaglio delle due aziende giova ricordare l’antica vocazione spumantistica della Franciacorta. Infatti, una delle prime pubblicazioni al mondo sulle tecniche di preparazione dei vini a fermentazione naturale in bottiglia e sulla loro azione sul corpo umano dal titolo “Libellus de vino mordaci” è del 1570 e si deve al medico bresciano Girolamo Conforti.  

    Questo medico, i cui studi precedettero le intuizioni dell’illustre abate Dom Perignon, mise in rilievo la notevole diffusione e il largo consumo che i vini con le bollicine avevano in quell’epoca, definendoli “mordaci”, cioè briosi e spumeggianti. Invece, da dove derivi il nome Franciacorta è ancora un mistero. l’ipotesi più accreditata è quella che lega il territorio alla presenza di monasteri cluniacensi e cistercensi che giunsero in Franciacorta da Cluny nel XI secolo. Monasteri molto potenti che, grazie alla bonifica e coltivazione dei vasti appezzamenti che amministravano in questi territori, riuscirono attorno al 1100 ad ottenere l’esenzione dal pagamento del dazio. Erano quindi delle Francae Curtes, cioè delle corti libere dalle tasse. Da Francae Curtes nacque il toponimo “Franzacurta”, apparso per la prima volta negli annali del Comune di Brescia già nel 1277. 

    Federico Fossati

    Dopo questa breve ma necessaria divagazione storica, che meglio contestualizza vocazione e territorio della Franciacorta, ritorniamo alle nostre cantine.

    Corte Aura nasce nel 2009 per volontà di Federico Fossati, il quale grazie all’incontro con Pierangelo Bonomi, tecnico con una lunga esperienza nel campo della spumantizzazione di alta qualità, realizza il suo sogno di produrre vino in Franciacorta. Corte Aura si dedica esclusivamente alla produzione di Franciacorta longevi e di grande espressione: per questo prevede per le proprie cuvée soste sui lieviti non inferiori ai 36 mesi, fino a superare i 50 mesi, scegliendo di millesimare alcune cuvée solo nelle migliori annate. Il simbolo di Corte Aura è la tartaruga proprio a voler ricordare la lentezza dei lunghi affinamenti, per Federico Fossati e Pierangelo Bonomi la fretta e a giovarne è ovviamente la qualità complessiva dei loro vini.

    I vini degustati

    Corte Aura Franciacorta Brut

    È lo spumante d’ingresso di Corte Aura, da uve 90% chardonnay e 10% pinot nero. I vini base vengono vinificati separatamente ed in seguito assemblati per creare la cuvée. Affinamento in bottiglia sui lieviti per un periodo di circa 30 mesi in cantine a temperatura costante di 12-15 °C. Affilato ed elegante, se il buongiorno si vede dal mattino…

    Corte Aura Franciacorta Rosè

    Da uve 90% chardonnay e 10% pinot nero. I vini base vengono vinificati separatamente ed in seguito assemblati per creare la cuvée. Affinamento in bottiglia sui lieviti per un periodo di circa 36 mesi in cantine a temperatura costante di 12-15 °C. è ancora l’eleganza complessiva a sorprendere, accompagnata dalla nitidezza del frutto.

    Corte Aura Franciacorta Blau Blanc de Noir 2016

    Nato da poco, è il primo esperimento sul pinot nero in purezza della cantina. Vinificato in acciaio, sosta sui lieviti per oltre 60 mesi. Spumante di notevole complessità e personalità, tuttavia il sorso è leggiadro e il finale di grande persistenza, Franciacorta regale.

    Corte Aura Franciacorta dosaggio zero “Raramè” 2012

    Un blend di chardonnay (60%) e pinot nero (40%) che vuole essere una vera e propria “rarità”: solo 5850 bottiglie numerate, in commercio a partire dalla tarda primavera. Un’annata complessa come la 2012, considerata minore per i vini fermi ma, come spesso accade, ottima – se non grande per il Metodo Classico, oltre 90 mesi di permanenza sui lieviti in bottiglia sdraiata, a una temperatura compresa tra 12-15° C, quindi ulteriori 24 mesi “in punta”, con l’obiettivo di perfezionarne l’evoluzione. È uno spumante che definirei aureo, tra i Franciacorta più buoni mai assaggiati negli anni, notevole eleganza complessiva, cangiante, incisivo e profondo.

    Eleonora Bianchi

    Terre D’Aenòr, nasce nel 2018 per volontà̀ della famiglia Bianchi, in particolare di Eleonora Bianchi la giovanissima proprietaria che ha saputo coniugare con il suo progetto qualità e creatività. I 46 ettari di vigneto, interamente di proprietà, abbracciano sette comuni e sono articolati in 33 appezzamenti distinti, una scelta ponderata che permette di dedicare a ciascuna pianta un’attenzione su misura, valorizzando al meglio le specificità pedoclimatiche di ogni singola zona per garantire la crescita ottimale delle viti. La selezione varietale è rappresentata dalle uve di chardonnay, pinot nero, pinot bianco, merlot e cabernet sauvignon. Attualmente la cantina ha nel suo portfolio per gli spumanti il Brut, l’Extra Brut Millesimato, il Rosè Extra Brut Millesimato, il Pas Dosè Millesimato, il Satèn e il Demi-sec.  Affiancati da un bianco fermo “È Norì” da uve chardonnay e da “Spadone”, un rosso di taglio bordolese.

    La storia di Terre D’Aenòr è indissolubilmente legata alla storia di vita di scelte coraggiose che Eleonora Bianchi ha sostenuto e merita di essere raccontata direttamente dalle sue parole: “Il mio percorso è insolito e mai avrei pensato che avrei lavorato nel mondo del vino. Ho sempre sognato di diventare avvocato, giurisprudenza mi è piaciuta tantissimo. Mi sono laureata a Brescia ad aprile 2020 e avevo già pronta una lista di alcuni grandi studi milanesi dove avrei mandato il curriculum. Poi, ecco che accade una “magia” che rimescola le carte in tavola. Premessa: mio padre, imprenditore del settore oleodinamico, dal 2003 ha iniziato a investire nell’acquisto di vigneti in Franciacorta e, per anni, ha sempre venduto l’uva. Verso la fine del mio percorso di laurea, viene però a maturazione quello che è sempre stato un grande sogno di famiglia: realizzare una nostra cantina in Franciacorta. Davvero entusiasmante! Giorno dopo giorno è come se fossi stata conquistata da questo progetto nascente, che si è progressivamente sostituito nella mia mente alle aule di Tribunale.

    All’inizio non è stato facile, mi sarebbe piaciuto fare entrambe le cose. Infatti, avevo iniziato la pratica forense part-time, metà giornata nello studio legale e metà con il team marketing con il quale stavamo studiando i primi aspetti della nuova cantina, come per esempio il nome o la grafica delle etichette, ma poi ho compreso che mi trovavo di fronte a un bivio e dopo aver riflettuto a lungo ho capito che questa sfida imprenditoriale mi appassionava davvero tanto. E così, eccomi qui!”   “Questo cambiamento di rotta non è stato facile ma fin da subito ho percepito un profondo senso di appartenenza a una passione familiare per questo mondo. Abitava inoltre in me il desiderio di dare vita a qualcosa di tangibile e profondamente mio, qualcosa che potesse incarnare l’essenza stessa del mio territorio e che potesse coniugare a 360 gradi le mie svariate passioni e attitudini.”  Il prossimo capitolo della storia aziendale si aprirà con l’inaugurazione, prevista per il 2025, della nuova cantina nel comune di Provaglio D’Iseo e con l’uscita sul mercato delle prime riserve targate Terre D’Aenòr.

    I vini degustati

    L’azienda è biologica sin dalla prima vendemmia. La conversione dei vigneti è iniziata nel 2014 per arrivare poi alla certificazione dalla vendemmia 2018.

    Particolare  e molto d’effetto anche il packaging che vuole rappresenta un punto di incontro tra il mondo del vino e quello dell’arte e della moda, trae infatti ispirazione dalle correnti artistiche che hanno segnato l’avanguardia e l’arte moderna della metà del Novecento, con un particolare tributo alle opere dell’artista Dadamaino, pseudonimo di Edoarda Emilia Maino che contribuì attivamente ai movimenti dell’avanguardia artistica milanese degli anni cinquanta con le sue ricerche geometrico-percettive.

    Terre d’Aenòr Franciacorta Brut

    Da uve 90% chardonnay e 10% pinot nero, permane sui lieviti almeno 22 mesi. Un Franciacorta che a definirlo entry level si commette peccato, setoso e leggiadro nel sorso.

    Terre d’Aenòr Franciacorta Rosé Extra Brut Millesimato 2020

    Da uve 80% pinot nero e 20% chardonnay, permane sui lieviti per più di 30 mesi. Sale subito in cattedra per eleganza complessiva, cangiante nel bicchiere, davvero una gran bella prova.

    Terre d’Aenòr Franciacorta Demi Sec

    Da uve 90% chardonnay e 10% pinot nero, permane sui lieviti per più di 30 mesi, con un residuo zuccherino di 40 g/L. Un Demi sec di altissimo livello con una nota sapida davvero intrigante. Dovremmo avere tutti sulla nostra tavola un vino così, vuoi per un aperitivo insolito: un finger food a base di sushi oppure di foie gras, oppure per un fine pasto in abbinamento con i lievitati della tradizione ovvero panettone e pandoro.

    Bene Eleonora, adesso aspettiamo con ansia le riserve. LEGGI TUTTO

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    Terroir Marsala: un viaggio tra passato e futuro a Vinitaly 2024

    Marsala, celebre per la sua storia vinicola e la sua terra fertile, ha brillato al Vinitaly di Verona con un affascinante talk show dedicato al Terroir Marsala. Il Presidente e il Vicepresidente del Consorzio per la Tutela del Vino Marsala Doc, Benedetto Renda e Roberto Magnisi, insieme al Master of Wine Pietro Russo, “marsalese doc”, hanno guidato il pubblico alla scoperta dei segreti e dell’adattabilità del vino Marsala, evidenziando il legame con il vitigno Grillo e offrendo spunti interessanti sulla sua ricchezza contemporaneità.

    Durante l’evento sono stati offerti in degustazione un Marsala Doc Vergine e un Marsala Doc Superiore, due tipologie che rappresentano l’autenticità, la tradizione e la versatilità del vino più famoso al mondo.

    “Il territorio di Marsala è un vero e proprio scrigno di tesori vitivinicoli che ne fanno una delle località più importanti per la produzione del vino Marsala. Insieme al Master of Wine Pietro Russo abbiamo esplorato i segreti del Terroir Marsala e degustato la ricchezza, la versatilità e la contemporaneità del nostro vino, senza mai compromettere l’autenticità e la tradizione che lo contraddistingue”, ha dichiarato il Presidente, Benedetto Renda. E ha continuato confermando Pietro Russo “ambasciatore del vino Marsala nel mondo”.

    Il talk è stato caratterizzato da un incedere di domande e risposte tra Roberto Magnisi e Pietro Russo, il quale ha sottolineato come “Il vino Marsala è un vero e proprio camaleonte enologico, capace di adattarsi a molteplici occasioni d’uso e di abbinamenti culinari. Dall’aperitivo al dolce, passando per antipasti, primi, secondi e formaggi, il Marsala dimostra la sua versatilità e la sua capacità di valorizzare ogni piatto e soddisfare ogni palato. Un vero tesoro della tradizione enologica siciliana, da scoprire e apprezzare in tutte le sue sfumature”.

    Infine, è stato presentato il Museo del Vino di Marsala, intitolato a John Woodhouse e dedicato alla memoria di Marisa Leo, vittima di femminicidio e attivista contro la violenza di genere.

    Il Sindaco di Marsala, Massimo Grillo, e il consigliere della Strada del Vino di Marsala, Stefano Caruso, hanno illustrato i dettagli del Museo, che rappresenta un ponte tra passato e futuro del vino siciliano.

    Secondo il Sindaco di Marsala, Massimo Grillo, il Museo, che sarà inaugurato il 12 maggio prossimo, rappresenta “Un contenitore multimediale e sensoriale, un luogo unico dove passato e futuro della tradizione enologica si incontrano. La tradizione rurale-contadina ed enologica di Marsala è pertanto la vera protagonista del Museo che, in prospettiva, svilupperà un sistema di marketing territoriale che avrà nella cultura del vino il suo filo conduttore”.

    Conclude Stefano Caruso, intervenuto per conto del Presidente Lombardo: “Marsala, finalmente, avrà il proprio Museo del Vino, nello storico Palazzo Fici, già sede dell’Enoteca della Strada del Vino di Marsala – Terre D’Occidente. Il Museo consentirà al visitatore di “fare un viaggio” nel vino Marsala e di immergersi in un’avventura sensoriale che si concluderà con la possibilità di prenotare le visite nelle cantine delle aziende associate, per poter conoscere e degustare le diverse tipologie di Marsala ed i rinomati ed apprezzati vini del territorio. Una sinergia importante, quella tra il Consorzio, la Strada del vino e il Comune di Marsala, che porterà i suoi frutti in termini di enoturismo e racconto del territorio e delle sue eccellenze.

    Con il Vinitaly 2024, il Marsala si conferma protagonista nel panorama vitivinicolo internazionale, affermando la propria capacità di adattarsi alle tendenze del mercato globale senza mai perdere di vista le proprie radici. LEGGI TUTTO

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    Rebecca Valent: il sostegno alle donne che lavorano e l’importanza di comunicare bene il territorio

    Se passate per Pramaggiore, lembo di terra al confine tra Veneto e Friuli  e domandate  in quali cantine si fa il vino buono, tra i primi nomi a essere enunciati ci sarà sempre Stajnbech. Giuliano Valent e sua moglie Adriana Marinato, sin dall’inizio del progetto, sul finire degli anni ’80 del Novecento, si sono concentrati su produzioni di qualità, in controtendenza con il pensiero dominate all’epoca in queste terre, siamo nella DOC Lison Pramaggiore, dove si badava più alla concretezza dei numeri.

    Rebecca Valent

    Oggi Giuliano e Adriana sono affiancati dalla figlia Rebecca, classe 1995, enologa, nata e cresciuta in cantina ma con alle spalle anche un’esperienza in California, dove ha potuto arricchire il suo personale bagaglio di conoscenze. Rebecca rappresenta la terza generazione, il futuro nel quale Giuliano e Adriana credono e al quale affidano la naturale prosecuzione della tradizione di famiglia con l’intraprendenza, l’energia e la visione innovativa dei giovani.

    Rebecca è giovane ma ha già sviluppato una precisa idea circa lo stile di un vino. Per lei, che ha alle spalle solo 9 vendemmie, quello ideale deve essere pulito, equilibrato, strutturato ma elegante, ma soprattutto rispettoso dei sentori tipici del vitigno e del territorio, dice Rebecca: “Non amo le mode in cui i difetti si nascondono dietro filosofie “particolari” – spiega – e per me la parola d’ordine in assoluto è degustare, e cercare di avere un confronto costante con gli altri produttori anche riguardo l’evoluzione dei processi produttivi”.

    La cantina Stajnbech

    Ma Rebecca ha un altro importante obiettivo, contribuire a dare voce alle giovani donne, una generazione in evidente crescitain cui lei si identifica, e che sta fortemente contribuendo a portare valore nel mondo del vino italiano, in alcuni casi come naturale prosecuzione dell’attività familiare, in altri progettando di creare una realtà vitivinicola propria. Rebecca fa parte di Sbarbatelle: “un gruppo, dice Rebecca, che a oggi conta 160 giovani produttrici provenienti da tutta Italia e in noi vedo una carica e un potenziale immensi. Unite, facciamo capire al di fuori che il mondo del vino ha bisogno di parità di genere, anche per continuare nelle generazioni la tradizione del vino.”

    Ma non è tutto. Rebecca Velent, infatti crede molto anche nel territorio e nell’importanza della sua valorizzazione, anche attraverso l’enoturismo: “Siamo collegati a mete turistiche importanti dice, il litorale e Venezia ma anche le Dolomiti non sono lontane dal territorio della Doc Lison Pramaggiore. Vorrei sempre trasmettere a chi viene in visita in cantina, tutto l’amore e la passione che ogni giorno mettiamo in ogni fase della nostra produzione, dal vigneto alla bottiglia, raccontando un territorio, la sua storia e il suo valore culturale che è poi quello che si ritrova nei nostri vini, passando anche il messaggio che il consumatore di vini italiani è da sempre il più tutelato”. LEGGI TUTTO