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    Château d’Yquem, il mito raccontato in un libro

    Una dei termini più abusati per raccontare il vino è sicuramente “iconico”, spesso si usa questa parola a sproposito quando invece andrebbe riservata solo ad un numero di etichette davvero ristretto, una di queste è senza dubbio Château d’Yquem. Basti pensare che nel Nel 2016, lo Château d’Yquem è entrato nel Guinness dei primati come il vino bianco più costoso al mondo, infatti,  una bottiglia del 1811 è stata acquistata per 75mila sterline, pari a circa 85mila euro.

    Francesca Brambilla, Cinzia benzi , Serena Serrani

    Al mito Château d’Yquem è dedicato volume monografico edito da Seipersei e da poco in libreria, scritto da Cinzia Benzi e fotografato da Francesca Brambilla e Serena Serrani. Cinzia Benzi è la storica firma di Identità Golose, esperta conoscitrice di etichette d’Oltralpe, da sempre una penna ispirata, intinta nel colore vivo del vino, che indaga e racconta tanto le grandi Maison quanto i piccoli vigneron italiani e internazionali, tracciando profili puntuali ma mai didascalici delle loro produzioni.

    Scorrendo le pagine del libro, il lettore potrà trovare nozioni più tecniche come la descrizione di vitigni e stili di vinificazione adottati, ma anche incontrare le figure chiave che ruotano attorno alla cantina, dalla tenace e visionaria fondatrice Joséphine Sauvage d’Yquem, la cui vicenda ricorda i migliori romanzi di formazione, all’attuale presidente e direttore generale Pierre Lurton, insieme all’italianissimo directeur d’exploitation Lorenzo Pasquini, che oggi ci conduce verso il futuro di Yquem.

    Alla stesura del libro hanno partecipato, con le proprie riflessioni, anche colleghi del settore enogastronomico: Eleonora Cozzella, collaboratrice di Repubblica; Federico De Cesare Viola, direttore editoriale di Food&Wine italia; Maddalena Fossati Dondero, direttrice responsabile de La Cucina Italiana; Andrea Grignaffini, direttore de Le guide de L’Espresso; Paolo Marchi, co-fondatore di Identità Golose; Leila Salimbeni, direttore editoriale di Spirito Divino; ma troveremo anche gli spunti del Master of Wine Gabriele Gorelli e di Massimo Bottura e Giuseppe Palmieri, rispettivamente chef patron e direttore di sala di Osteria Francescana a Modena, presso cui si è tenuta una memorabile (e riservatissima) degustazione di annate storiche di Château d’Yquem, nell’aprile 2023.

    Ogni contributo è pensato per offrire all’esperto quanto al neofita una panoramica esaustiva sul mondo Yquem e i suoi segreti. Ma quando le parole non sono sufficienti…ecco entrare in scena la potenza della fotografia. Perché Château d’Yquem non è soltanto un compendio sul vino più rappresentativo del Sauternes, ma anche un libro dal forte impatto visivo.

    Merito dell’obiettivo e dello sguardo di Francesca Brambilla e Serena Serrani, specialiste dello still life e del reportage fotografico e interpreti di punta della food photography italiana. Seguendo Cinzia Benzi nel suo viaggio, hanno impresso sulla pellicola immagini evocative, che ci trasportano tra i vigneti nel lento alternarsi delle stagioni, nel silenzio delle cantine dove le bottiglie riposano, tra le pietre con cui la tenuta è stata costruita. Dettagli minuti e grandi panorami dialogano in maniera equilibrata con la parola scritta, regalando al lettore un racconto altrettanto intenso e potente, fatto di luce, linee e colori.

    Ad arricchire l’opera, infine, le illustrazioni di Gianluca Biscalchin, che interpreta le note di degustazione di Yquem, tratteggia alcuni dei possibili abbinamenti al vino e ci regala altri scorci della tenuta.

    “La vita è come la vite che cambia le foglie, produce i frutti, ma il vero valore aggiunto sono le radici ben piantate nella terra” chiosa Cinzia Benzi a conclusione di un libro che cresce pagina dopo pagina e che ci offre un prezioso spaccato sulla genesi di un mito: quello di Château d’Yquem.

    Château d’Yquem

    Testi di Cinzia Benzi

    Fotografie di Francesca Brambilla, Serena Serrani

    Illustrazioni di Gianluca Biscalchin

    Prefazioni di Andrea Grignaffini e Lorenzo Pasquini

    Pensieri di Massimo Bottura, Eleonora Cozzella, Federico De Cesare Viola, Maddalena Fossati Dondero, Gabriele Gorelli, Paolo Marchi, Giuseppe Palmieri, Leila Salimbeni

    Formato, 22,5x29cm; Copertina, cartonato su patinata opaca con plastificazione opaca, stampa 4/0; Interni, 176 pagine su GardaMatt Ultra da 150gr con vernice, stampa 4/4 colori; Risguardi, su usomano stampati 4/0; Confezione, brossura filo refe, dorso quadro con capitelli.

    ITA, ENG, FRA 2023 – € 60,00 – Seipersei Edizioni LEGGI TUTTO

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    Nuove vignaiole: Teresa Mincione, ma nulla è per caso

    Il 2024 parte bene, subito una bella novità. Scorrendo la mia timeline di Facebook mi imbatto in un post di Luciano Pignataro e sobbalzo sulla sedia. Luciano riprende un suo articolo che ha appena pubblicato su “Le Pagine del Gusto” del Mattino per raccontare la storia di Teresa Mincione, avvocato, sommelier con vari master, collaboratrice per oltre 12 anni della guida Slow Wine, scrittrice di vino, che ha deciso di passare dall’altra parte della barricata diventando produttrice. Ho conosciuto Teresa qualche anno fa in giro per l’Italia come inviata del Blog di Luciano Pignataro, poi la ricordavo molto impegnata nella sua professione di avvocato e mai mi sarei aspettato un cambio di vita così radicale, va da sé che era urgente sentirla subito per saperne di più.

    Vigneti di Casavecchia a Castel Campagnano

    Teresa, la prima domanda è ovvia, come, quando e perché hai deciso di diventare produttrice?

    Credo che nella vita esistano dei percorsi predestinati, ancestrali. E credo, al tempo stesso, che l’amore che si prova verso ciò che si fa con profonda e viscerale passione possa rivelarsi, in un’analisi a posteriori, un sottovalutato acceleratore d’arrivo verso ciò che all’inizio può apparire impossibile o un “mero” grande sogno nel cassetto. In un intreccio di situazioni importanti, ho avuto il felice coraggio di leggere ciò che la vita mi stava offrendo e di trasferirmi dall’altro lato della storia. Non più come chi racconta il territorio attraverso gli scorci di vite altrui, ma come chi, conscia del percorso fatto, attraverso il proprio vissuto, si impegna a narrare con il proprio lavoro, in vigna e in cantina, un terroir unico. In altre parole, far arrivare la preziosità di un piccolo areale dal grande potenziale, attraverso la voce di vitigni autoctoni tipici della provincia di Caserta: Casavecchia e Pallagrello. Voci piccole rispetto al coro del panorama enologico italiano, ma non da meno straordinarie, in grado di raccontare, con le sfumature che sono proprie di ognuno, un territorio che in un tempo fu reso grande anche dalla storia attraverso l’indimenticabile anima dei Borbone che tanto amarono il Pallagrello da inserirlo nella storica “vigna del ventaglio”.

    Casavecchia

    Ti ricordavo competente e preparatissima, ma tra scrivere di vino e fare vino, converrai con me, che c’è una bella differenza. Quando hai capito che eri pronta a far uscire un’etichetta con il tuo nome, sfidando gli strali della critica enoica e la competitività del mercato?

    Da degustatrice campana, ho sempre seguito i percorsi e le evoluzioni che i vitigni regionali avevano nel tempo. Ma il Casavecchia e Pallagrello, da sempre mi hanno affascinato. Ho iniziato per gradi, iniziando dal Casavecchia. Quando la mia vita è cambiata, diventando a tempo pieno, dedicata al vino, lo studio e la sperimentazione sul vitigno Casavecchia hanno caratterizzato il mio lavoro in vigna e in cantina, diventando i veri predecessori del prodotto finito. Il primo passo verso un vino di qualità è partire dalla cura profonda della vigna, come fosse una parte di te allocata in altro luogo. Solo attraverso una vigna sana nel totale rispetto della biodiversità e della natura può esistere un vino di qualità. Quando accanto all’idea di un vino autentico e di territorio, si è accompagnata la reale possibilità, vendemmia dopo vendemmia, di offrire un prodotto identitario, in grado di raccontare vitigno, annata e la passione di chi lo produce, allora ho ritenuto che il mio Nulla è per caso, Casavecchia in purezza, potesse aver vita. E l’anfora, contenitore antico quanto moderno, mi è stata d’aiuto. Creare un vino è un atto d’amore profondo, viscerale, attraverso il quale racconti una storia. È un’equazione irripetibile, quella che nasce dalla fusione del produttore con il suo vino, della sua vita con quella del suo vino, del suo tempo con quello del suo vino.

    Tra l’altro, con una ulteriore dose di grande coraggio, hai deciso di scommettere su un vitigno sicuramente non tra i più noti della Campania, il Casavecchia. Come mai questa scelta e quale disegno hai in mente per valorizzarlo e farlo conoscere di più?

    Il Casavecchia è un vitigno molto particolare, poco conosciuto e a mio parere, sottovalutato. Da sempre lo si conosce attraverso dettami che ad oggi non gli consentono di godere di una giusta luce. Grande estratto e energica potenza, i tratti che da sempre hanno accompagnato l’idea del grande pubblico. Eppure, nella giusta luce e prospettiva produttiva, può offrire il fianco ad una nuova chiave di lettura con conseguente cambio del panorama gustativo declinato in termini di bevibilità e piacevolezza, di freschezza e tannini che non imbrigliano ma completano il sorso. In altre parole, togliere per valorizzare, svestire più che coprire. Cosa farò per farlo conoscere? Cercherò di offrire una sua rilettura attraverso un nuovo modo di raccontarsi come vitigno misterioso ma al tempo stesso versatile e interessante in grado di rivelarsi nell’era moderna, piacevole, bevibile e gastronomico. È in vigna che nasce un buon vino, ma è a tavola che lo si apprezza a tutto tondo.

    Altra domanda di prammatica per chi si ritrova in un progetto nuovo riguarda il futuro. Ti concentrerai solo sul Casavecchia oppure hai già in mente qualcos’altro?

    La sperimentazione sul Casavecchia è stato il mio primo amore e non nego che un nuovo progetto per il racconto di questo vitigno è nei pensieri, ma in cantiere ci sono già delle novità che riguardano il Pallagrello nero, altro vitigno che fa parte della mia vigna (assieme al Pallagrello bianco) sulle dolci colline di Castel Campagnano. Tra i filari, viti vecchie di oltre trent’anni di Casavecchia, Pallagrello nero e Pallagrello bianco in un habitat che vede anche la presenza di un bosco che ben favorisce grandi escursioni termiche utili e preziose per le uve. Uno spicchio di territorio nel quale la biodiversità e sostenibilità sono certamente i punti fermi.  La mia è una piccolissima cantina che fa dell’identità e alla territorialità i cardini del proprio lavoro. 

    A corollario di queste parole così appassionate di Teresa, viene spontaneo pensare che non poteva esserci nome più azzeccato per il suo primo vino che ha deciso di chiamare «Nulla è per Caso». L’etichetta riproduce una tela del maestro Luca Bellandi, artista sensibile che ha ispirato Teresa nelle scelte decisive per la sua nuova vita di vignaiola.

    Il caso non esiste, forse esiste un disegno più grande e sta a noi coglierne i segnali e agire di conseguenza, con grande coraggio. Brava Teresa, un grande in bocca al lupo. LEGGI TUTTO

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    Poggio Levante, vignaioli ai piedi del Monte Amiata

    Dice Bill Gates che se va a letto non avendo fatto niente di nuovo rispetto a ieri, un giorno è stato sprecato. Sinceramente è difficile dargli torto.

    Per chi ama il vino, per chi ne scrive, è linfa vitale non sprecare i giorni, che concretamente vuol dire assaggiare vini di cui si ignorava l’esistenza, scoprire cantine, conoscere facce nuove tra produttori, soprattutto tra quelli che si sono affacciati da poco nel grande mare magnum del mondo del vino e, proprio per questo motivo, sono animati da grande entusiasmo.

    Vivaddio, non è stato un giorno sprecato incrociare i vini di Poggio Levante.

    La cantina è situata nel cuore della Maremma di Grosseto, ai piedi del Monte Amiata e a circa 40 km dal Mar Tirreno e lavora circa tre ettari di vigneto tra i 300/350 metris.l.m. Titolare è il veneto e giovanissimo Alberto Facco, che alla precisa domanda di cosa ci fa un veneto e perché fa vino in Maremma risponde così: “Io, come la mia famiglia, sono veneto al 100%. Mio padre ha un’azienda dedita alla vendita di trattori e attrezzature agricole. Nel 2002/2003 mio padre vendette una fornitura ad un cliente di origine padovana che si trasferì a Monticello Amiata, un paese poco distante da Cinigiano. Mio padre non rimase indifferente al fascino e alla bellezza delle colline toscane e decise di acquistare un terreno, sul quale poi venne piantato il vigneto qualche anno dopo. Per i primi anni di produzione, cedemmo l’uva in cambio dei lavori agricoli necessari al corretto mantenimento del terreno. Solo dal 2018 siamo partiti con il progetto Poggio Levante, il quale unisce il territorio toscano con l’invettiva veneta per creare vini dai tratti moderni e distintivi.

    Alberto Facco

    “Il nostro obiettivo è una produzione di nicchia, in cui la ricerca della massima qualità ed espressione del binomio vitigno/terroir sia la nostra stella polare. Assieme all’enologo Guido Busatto, che ha una grande esperienza nella viticoltura biologica, Poggio Levante sta lavorando per ottenere un prodotto sempre più distinguibile. Siamo consapevoli che la riconoscibilità di un vino sia un processo lungo, ma ci stiamo impegnando per vincere questa sfida e far sì che un consumatore, quando degusta il nostro Vermentino come il Sangiovese, possa associarli al nome Poggio Levante”.

    Per Poggio Levante il vino è un’esperienza a 360°: per questo anche il packaging ha la sua importanza perché permette di comunicare un messaggio di eccellenza. La scelta di bottiglie più leggere porta a un’impronta carbonica più bassa e l’etichetta esprime personalità in coerenza con la mission aziendale: offrire prodotti nuovi ma mai snaturati dal territorio e dai varietali.

    Il ragazzo ha le idee chiare non c’è che dire, ma alla fine a parlare è sempre la bottiglia, da qui non si scappa.

    Diciamo subito che i vini di Poggio Levante sono una gran bella sorpresa. Attualmente Poggio Levante produce circa 13.000 bottiglie declinate su due tipologie di vini: il Vermentino e il Sangiovese.

    Il vino di punta è Unnè, un Vermentino non convenzionale che prende il nome proprio dall’esclamazione toscana “Unnè”, ovvero “non è quello che sembra”. Quello di Poggio Levante, infatti, vuole essere un Vermentino che sorprende per qualità, proprietà organolettiche e per l’immagine con cui si presenta, in una bottiglia renana con tappo a vite. Immesso in commercio non prima di 3 anni dopo la vendemmia come DOC Maremma Toscana, ho degustato l’annata 2019 che presenta all’olfatto decisamente intenso, di fiori e agrumi, pietra focaia, al palato è sapido e cangiante, entra di diritto nella top ten dei bianchi degustati nel 2023.

    Poi c’è Il Sangiovese Ovvìa che nasce da un vigneto situato all’interno della Denominazione Montecucco e viene imbottigliato come DOC Maremma Toscana. Il terreno è marnoso e galestroso con una buona componente argillosa. Il vigneto, gestito in regime biologico, ha un’età di 10 anni con orientamento a nord, con circa 4500 piante per ettaro e resa 50 q.li per ettaro. Ovvìa è un vino che matura in botti ovali di rovere francese da 15 hl e in vasche di cemento non vetrificato da 20 hl. Qui l’affinamento dura circa 18 mesi, più un’ulteriore sosta di minimo 5 mesi in bottiglia. La prima annata prodotta, 2018, mentre io degustato quella attualmente è in commercio ovvero l’annata 2019. Nitido e intrigante l’olfatto con note di frutta rossa, ciliegia e una delicata speziatura. Al palato è dotato di notevole balsamicità e profondità, mi tocca usa il termine “di grande bevibilità” ma non saprei come altro definirlo.

    Completa la gamma aziendale una piccola chicca, il Vermut artigianale Sergio. Il Vermut Sergio, dedicato al nonno di Alberto, porta con sé l’idea di valorizzare la qualità del Sangiovese, vino usato come base, per creare un prodotto autentico, con una forte identità territoriale. La lavorazione delle botaniche rispetta fedelmente  le caratteristiche delle piante usate, estraendo le loro note aromatiche tipiche. Tra le estrazioni alcoliche utilizzate ci sono infusi e tinture a diverse gradazioni.

    Di Poggio Levante ne sentiremo parlare, eccome se ne sentiremo parlare. LEGGI TUTTO

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    Dalla vigna all’orto, Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano

    Di Patrizia Vigolo

    La Cantina Cooperativa Vignaioli del Morellino di Scansano ha iniziato la sua storia nel 1972, fondata da viticoltori coraggiosi con l’obiettivo di promuovere i vini della Maremma Toscana a vantaggio della comunità. La cooperativa è stata tra i promotori della DOC Morellino di Scansano nel 1978, confermando la qualità straordinaria dei vini di questa regione. Nonostante le sfide di mercato negli anni ’80, la cooperativa ha investito nella qualità dei vini, aumentando la produzione e ampliando le aree di vinificazione e affinamento.

    Negli anni successivi, la Cantina ha adottato pratiche sostenibili per ridurre l’impatto ambientale, ottenendo certificazioni e partecipando a progetti innovativi. La sede è stata ristrutturata tra il 2016 e il 2018, inclusa un’area dedicata all’accoglienza.

    La Cantina è attiva nella produzione di vini provenienti da uve territoriali, tra cui Sangiovese (localmente conosciuto come Morellino), Ciliegiolo, Vermentino e Alicante.

    Etichetta solidale in edizione limitata per il progetto “L’Orto Giusto”

    La Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano, sempre attenta al territorio, ha presentato, anche per questo Natale 2023, un’etichetta “solidale” a supporto di progetti territoriali. Quest’anno la collaborazione si è stretta con il progetto de “L’Orto Giusto”, un’iniziativa di agricoltura sociale gestita direttamente da ragazzi con disabilità.

    Una parte del ricavato delle vendite della bottiglia contribuirà al progetto della Cooperativa Beata Veronica, che favorisce l’inserimento lavorativo nel settore agricolo per persone con disabilità. Attraverso la coltivazione e la cura di un orto, i giovani coinvolti hanno l’opportunità di sviluppare autonomia personale, apprendere un mestiere e sperimentare una vera inclusione lavorativa.

    L’etichetta di Roggiano Morellino di Scansano Docg è stata scelta tra i disegni realizzati dai partecipanti al progetto durante una visita in cantina. Tutte le immagini sono disponibili in una sezione appositamente dedicata sul sito della cooperativa.

    Le parole di Stefano Russo, presidente della cooperativa: “l’etichetta, disegnata da un ragazzo autistico di circa 20 anni, inizialmente molto chiuso in sé stesso Ora, frequentando l’Orto Giusto, è la stella del design per via di questa etichetta. E’ diventato molto più loquace in tutte le sue espressioni”. Da queste parole emerge in modo netto e chiaro l’amore per il progetto e per i ragazzi che lo animano. La limited edition del Morellino di Scansano Docg Roggiano è già in vendita da fine ottobre nello shop aziendale.

    La degustazione

    Capoccia

    Ciliegiolo in prevalenza

    Maremma toscana d.o.c.

    Vendemmia 2022

    Lo scopo della Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano era quello di esaltare il vitigno nella sua purezza e nelle sue caratteristiche principali: freschezza, grande bevibilità e schiettezza.

    Un vino che appena versano colpisce per la sua brillantezza, luminoso. Al naso i sentori tipici del ciliegiolo: emerge fin da subito sentori di frutta rossa matura ma ancora piacevolmente croccante.

    Al palato è fresco, diretto, non si nasconde ma si manifesta per quello che è: un vino semplice e che fa di questa sua semplicità la sua forza maggiore.

    Roggiano

    Uvein prevalenza Sangiovese

    Morellino di Scansano Docg

    Vendemmia 2022

    Questo vino appartiene alla linea “Roggiano”. I vini che ne fanno parte sono prodotti con uve provenienti da vigneti a 250/300 mt slm.

    Anche in questo caso un vino prodotto con maturazione in acciaio e affinamento in bottiglia per almeno 3 mesi.

    Al naso in questo caso emergono anche note floreali. La viola e la rosa la fanno da padrone e si affiancano ovviamente ai sentori del Sangiovese quali il mirtillo e la mora.

    Non ci sono pretese di evoluzione: un vino elegante, dai tannini sottili che sa farsi piacere già adesso.

    Al palato si capisce subito che è un vino “gastronomico”, dalla piacevole beva quotidiana.

    Roggiano Biologico

    Uve in prevalenza Sangiovese

    Morellino di Scansano Docg

    Vendemmia 2022

    Il Roggiano biologico, nascendo in una terra come la Maremma che notoriamente è una zona abbastanza salubre, nasce proprio come figlio di questo territorio.

    La provenienza delle uve è da vigneti posizionati ad altitudini maggiori, dove le rese per ettaro sono minori rispetto all’omonimo precedentemente degustato.

    Capoccia Riserva

    Uve in prevalenza ciliegiolo

    Maremma Toscana Doc

    Vendemmia 2020

    Il Capoccia Riserva matura in barrique di rovere francese per 6 mesi (40% nuove – 60% secondo passaggio) e questa permanenza si fa assolutamente sentire. Non è invadente ma fa emergere prime note speziate all’olfatto e un buon equilibrio al naso.

    Si capisce fin dal primo sorso che qui l’intento dell’azienda è quello di proporre una riserva facilmente approcciabile, lasciando quella bevibilità che fa da fil rouge in tutti i vini.

    Roggiano Riserva

    Uve in prevalenza Sangiovese

    Morellino di Scansano Docg

    Vendemmia 2020

    Un affinamento di 12 mesi in barrique e un lungo affinamento in bottiglia di circa 10 mesi. In questo Roggiano Riserva spiccano note più floreali ma arricchite da leggere note speziate dolci, quali la cannella che ben si accompagna ai sentori di sottobosco. Un vino che ha di fronte a sé una lunga evoluzione. Già ben equilibrato ma avrà bisogno di tempo per esprimersi al meglio. LEGGI TUTTO

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    Santa Maddalena: romantica collina, seducente vino

    di Luciano Pavesio

    Risalendo l’Alto Adige in direzione Austria, costeggiando in statale l’ondulare scorrere del fiume Adige, non appena oltrepassato l’abitato di Bolzano, inevitabilmente l’occhio volge lo sguardo a destra per ammirare estasiati l’assolata e romantica collina di Santa Maddalena. Nel centro si erge un piccolo borgo vitivinicolo di poche centinaia di ettari, da dove nasce l’omonimo vino, meglio noto in etichetta come St. Magdalener.

    Questo nobile uvaggio bolzanino è ottenuto da uve Schiava di diversi cloni, principalmente Schiava Grossa, Schiava Grigia e Schiava Piccola o Gentile, caratterizzate da acini grandi con un basso rapporto tra buccia/polpa, unite a un massimo di 15% di uve Lagrein, ricche al contrario di resveratrolo e tannino che conferiscono colore, struttura e complessità.  Entrambi i vitigni sono spesso coltivati nello stesso vigneto e le uve vengono raccolte e vinificate insieme, seppur il Lagrein normalmente ha una maturazione posteriore di circa una settimana, tradizione che è stata mantenuta anche nei nuovi impianti, che hanno conservato anche la coltivazione con il sistema a “pergola” che, oltre ad essere più confacente alle necessità della Schiava, contribuisce al panorama fatato di questa collina. La denominazione Santa Maddalena è piuttosto recente.

    Leopold Larche

    Nel corso di una piacevole passeggiata in compagnia di Leopold Larcher, “innamorato della Schiava” e grande conoscitore di questo territorio, apprendo che storicamente il territorio bolzanino era fonte di vino bianco, prodotto e consumato in larga parte dal Clero: basti pensare che attorno all’anno 1000 in questa zona si contavano ben 25 proprietà vescovili.

    Nel periodo medievale su questa collina, denominata “Prazöll” ovvero “piccolo piazzale pianeggiante”, dove ancora oggi sorge la chiesetta di stile romanico ricoperta al suo interno da pregiati e significativi affreschi raffiguranti la Passione di Cristo e diverse scene di vita della Maddalena, si produceva il “Leitacher”, considerato il miglior vino bianco di Bolzano.

    Tra il XVI e il XVII secolo si assistette a un deciso cambio di tendenza, con il vitigno Schiava che via via si diffuse fino a diventare la coltivazione principe di questa regione. Un fenomeno però che a partire dal 1983 ha seguito un andamento inverso, considerando che da 470 ettari vitati si è arrivati a soli 200 ettari nel 2013 per tornare a lasciare spazio a vitigni a bacca bianca, prediligendo altitudini medio alte, dai 400 fino ai 1.000 metri per contrastare le bizze climatiche degli ultimi 15 anni.

    Un fenomeno eccezionale che conversando con Larcher si è però già verificato nel corso dei secoli: in base alle sue ricerche sulle vicende storiche legate al mondo enologico in Alto Adige, apprendo che nel 1070 si coltivava la vite sul Renon ad oltre 1.000 metri per contrastare il gran caldo di quel periodo, con casi limite di una vendemmia nel 1195 operata a giugno in seguito alla fioritura della vite a fine gennaio!

    Grappoli di Schiava

    Al contrario il 27 settembre del 1579 una grande nevicata distrusse tutte le pergole, freddo glaciale registrato anche agli inizi del 1700, intervallato nel 1752 da condizioni climatiche particolarmente favorevoli che portarono a una mega produzione di uva. Altro evento singolare nel 1816, quando un inverno particolarmente lungo, con freddo intenso e parecchia neve, fece slittare la fioritura ad agosto con conseguente produzione di uva pressoché nulla.

    Le prime testimonianze del vino Santa Maddalena, al pari del Santa Giustina e del Leitach, risalgono all’inizio del XIX° secolo, definendolo come “vino pregiato e costoso del Tirolo meridionale”. Per salvaguardare la qualità e l’origine del vino di fronte alle crescenti contraffazioni, nel 1923 i vignaioli bolzanini, divenuti più autonomi nei loro masi per anni di proprietà di monasteri e nobili della Germania meridionale e dell’Austria, fondarono il Consorzio di Tutela del Santa Maddalena. Il territorio tutelato inizialmente, sotto forti pressioni del mercato, si estese, comprendendo anche le zone di Santa Giustina, Costa, San Pietro e San Genesio, fino al paesino di Settequercie, come venne sancito nel disciplinare della Doc emanato nel 1971.

    Il St Magdalener secondo la Weingut Plonerhof

    Dagli ultimi dati di produzione si evince che nell’attuale zona disciplinata una quarantina di aziende producono circa 7.600 ettolitri nei 160 ettari di Santa Maddalena D.O.C. Classico (che corrisponde al 3 % dell’intera superficie vitata in Alto Adige), mentre da un altro centinaio di ettari scaturiscono 9.200 hl di Alto Adige Santa Maddalena D.O.C.

    Degustazioni

    Al termine della nostra escursione una serie di degustazioni ci ha permesso di verificare l’attuale ottimo stato dei vini di questo territorio, a cominciare da un fresco e fruttato Alto Adige St. Magdalener Classico prodotto quasi esclusivamente con uve schiava, vinificato ed affinato solo in acciaio, della cantina Wassererhof di Fiè allo Sciliar, di recente costituzione grazie all’apporto dei gemelli Christoph e Andreas Mock che hanno ristrutturato i vecchi masi di famiglia Mumelterhof in località Costa a Bolzano e l’Hof zu Wasser (“Maso presso la sorgente”) fatto costruire in Valle d’Isarco nel 1366 dai Signori di Liechtenstein.

    Christian Plattner della tenuta Ansitz Waldgries ci ha servito uno strutturato, morbido e piacevole St. Magdalener “Antheos”, una speciale selezione che annovera diversi cloni storici di schiava, pazientemente ripiantati nel vigneto per permettere la raccolta e la vinificazione delle uve insieme con una piccola parte di Lagrein, massa che viene successivamente affinata in botte grande per alcuni mesi per levigare ed addolcire il tannino.

    Christoph Mock – Wassererhof

    Molto attiva in questa zona anche la Cantina sociale di Bolzano che propone ben tre versioni di St. Magdalener. Questa cooperativa di ben 220 soci fu costituita nel 2001 dalla fusione tra le storiche Cantina Gries e la Cantina Santa Maddalena, la prima realtà associativa che nel 1930 raccolse le uve di 18 vignaioli per cercare di estendere e perfezionare la vinificazione e commercializzazione di questo vino. Nel 2018 l’azienda si trasferisce nel quartiere di San Maurizio, nei pressi dell’ospedale di Bolzano, nella nuova spettacolare cantina, un cubo rilucente costruito a ridosso della collina dove ogni dettaglio è stato costruito per essere al servizio della qualità del vino, dal conferimento delle uve da parte dei soci alla vinificazione sfruttando i diversi livelli dell’edificio fino al silenzioso caveau di affinamento, tutto sotto la regia attenta dell’enologo Stefan Filippi.

    La versione “base” di Sudtirol St. Magdalener Classico viene prodotto in diverse centinaia di migliaia di bottiglie mantenendo pulizia, tipicità e facilità di beva. La complessità e la persistenza aumentano decisamente degustando la selezione Huck am Bach, frutto di uve schiava e lagrein provenienti dall’omonimo maso.

    Da un paio d’anni la linea di Santa Maddalena si è arricchita della selezione Moar, dove la percentuale di lagrein sfiora il 15% regalando maggior corpo e rotondità al vino, con aromi di frutta fresca croccante per nulla intaccati dall’affinamento in botti grandi di rovere.

    Molti sono i giovani, quasi sempre figli di viticoltori che fino a pochi anni fa conferivano le uve alle cantine sociali, che spinti dagli studi enologici hanno affrontato la sfida di mettersi in proprio per confrontarsi con l’intera filiera enologica, dalla vite alla commercializzazione. Tra di loro ho particolarmente apprezzato la speziata selezione “Rondel” di Franz Gojer e di suo figlio Florian, frutto di una lunga fermentazione in botte grande di rovere e la pepata versione Classico della tenuta Weingut Plonerhof della famiglia Geier.

    Colpisce la balsamicità, con note di liquirizia dolce, della selezione Reisegger della Tenuta Egger Rahmer, da un vigneto misto di schiava e lagrein fino al massimo del 15% coltivata nel cuore della collina bolzanina, e nel Classico della storica azienda Obermoserhof di Heinrich e Thomas Rottesteiner.

    Ingresso dell’azienda Erbhof Unterganzner

    Nitido e netto il Classico con leggeri torni affumicati e di spezie fini della tenuta Erbhof  Unterganznerhof, gestito da più di 25 anni da Josephus Mayr, uomo che ha speso molti anni della sua esistenza a favore della sua regione.

    Sentori di frutta rossa e piccoli frutti di bosco, lampone e more, nei freschi e invitanti St. Magdalener dell’azienda Untermoserhof di Georg Ramosere degli storici masi Kandlerhof di Martin e del figlio Hannes Spornbergere Pfannenstielhof  di Johannes Pfeifer,confinanti con la chiesetta dedicata a Santa Maddalena, uno dei luoghi simbolo di uno dei tesori dell’inestimabile e ineguagliabile patrimonio enologico della nostra Penisola.

    credit photo: la foto di Christoph Mock è tratta dalla pagina Facebook di Wassererhof LEGGI TUTTO

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    Est e Ovest delle Sorelle Bronca: Il fascino dei due mondi nel cuore delle colline del Prosecco

    di Patrizia Vigolo

    Est e ovest, due identità contrastanti che si intrecciano e si potenziano reciprocamente. Queste sono le due nuove etichette delle sorelle Bronca: Est Brut e Ovest Extra Dry, i due storici Prosecco Superiore Docg.

    Nel cuore delle colline del Prosecco, le sorelle Bronca, Antonella e Ersiliana, sono le fondatrici dell’azienda. Da quanto loro padre Livio ha donato loro i primi terreni nel 1989, è iniziato il loro progetto di famiglia.

    Ersiliana e Antonella Bronca

    Le Sorelle Bronca rappresentano un’affascinante storia di passione, dedizione e tradizione nel mondo della produzione di vini di alta qualità.

    Da questo grande amore per il territorio è dalla loro grande forza nasce il progetto di voler esaltare il loro terroir, unico e inconfondibile. Un terroir che è composto da tasselli fatti di microclimi, suoli e paesaggi unici che formano insieme un mosaico tutto da esplorare e da conoscere.

    Le due nuove etichette, Est e Ovest, si inseriscono in un progetto di microzonazione iniziato con la linea “Particelle”.

    “EST brut”

    Questo vino nasce dai vigneti che si trovano sul versante di Conegliano, catturando l’essenza delle colline orientali della zona, dove le viti godono del calore del sole mattutino. Vigneti di circa 40 anni che si trovano ad una altitudine che va dai 150 ai 250 mt s.l.m, garantiscono una significativa escursione termica. Le uve vengono raccolte a mano in cassette, un processo delicato e sapiente che garantisce che solo le uve migliori vengano selezionate per la vinificazione.

    Questo Prosecco “Est” si distingue per la sua freschezza, per i sentori di fiori bianchi e di note fruttate delicate derivanti da terreni ricchi di ferro che conferiscono al vino queste così piacevolmente fresche.

    Particelle 1

    OVEST extra dry

    Questo vino nasce invece nella zona di Valdobbiadene, nella zona occidentale, dove la fanno da padrone marne e argille che regalano al vino un ottimo equilibrio tra tenore zuccherino e acidità. Il vino si esprime con una personalità diversa, più ricco, fresco ma con un tenore zuccherino che lo rende piacevole ed elegante allo stesso tempo. La vendemmia avviene sempre a mano e in cassette per permettere una attenta selezione delle uve.

    Due vini che hanno molto in comune e che rappresentano due facce della stessa medaglia: un unico territorio che vuole parlare di vino in modo unico e specifico, perché, come dice Federico Giotto, enologo della cantina, “il vino è una cosa intima e va prodotto in modo unico e rispettoso del territorio.”

    La linea “Particelle”

    La linea “Particelle” delle Sorelle Bronca è un progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di esplorare e celebrare l’unicità dei diversi terroir all’interno dei loro vigneti. L’obiettivo principale di “Particelle” è quello di evidenziare come il suolo, il microclima e l’altitudine influiscano sul vino finale. Ogni singola particella racchiude un mondo, fatto di sfumature che insieme sanno tessere una tela che rappresenta le potenzialità del Conegliano Valdobbiadene.

    Particella 68 – Brut Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCCG Rive di Colbertaldo

    Questa “particella” di terreno è situata nella zona di Colbertaldo, su terreno calcareo, roccioso, un terreno dove le viti faticano a sopravvivere. Le vigne, di età non inferiore ai 20 anni, donano una grande mineralità al vino ed una elegante freschezza.

    Particella 68

    Particella 232 Extra Brut Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Rive di Farrò

    Un vino che tra gli addetti ai lavori si definirebbe “verticale”: una cascata di freschezza, accompagnata al naso da chiari accenni di fiori bianchi e agrumi. Queste note aromatiche sono avvolte da una sottile mineralità, testimonianza delle particolari condizioni geologiche del terroir di Farrò.

    Particella 181 – Brut Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Riva di Rua

    Le note fruttate di mela, pera e agrumi si rivelano in questo vino in modo distinto. La struttura è ben definita, con una piacevole acidità che conduce a un finale lungo e pulito. Un vino proveniente da terreno caldo, ricco di residui ferrosi e che al primo assaggio si fa definire “cremoso”.

    Piero, Antonella, Ersiliana e Elisa

    In questo progetto emerge un profondo rispetto delle sorelle Bronca verso il territorio d’origine accompagnato da una paura: una paura che non riguarda la paura di sbagliare ma la paura di interpretare in maniera sbagliata il loro amato territorio.

    Un messaggio forte esce da queste etichette e se ne fa portavoce Antonella: “dare un nome ai due vini Est e Ovest porta con sé un grande messaggio e cioè che il vino non è un tenore zuccherino, sia esso brut, extra brut o extra dry, questi due vini sono l’immagine inconfondibile di due territori unici. “ LEGGI TUTTO

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    Suavia e i “vini di terroir”: la linea “I Luoghi”

    di Patrizia Vigolo

    Le colline del Soave si intrecciano indissolubilmente con il vitigno della Garganega e le sorelle Tessari lavorano da anni per far emergere le grandi potenzialità di questo territorio.

    La cantina Suavia nasce nel 1982 quando i genitori delle sorelle Tessari, Giovanni Tessari e la moglie Rosetta, iniziano a produrre vini da uve provenienti dai terreni della famiglia, interrompendo così il conferimento delle uve alla cantina sociale. “Un azzardo forse per gli anni ottanta, coppia giovane, figlie tutte femmine e nessun maschio per guidare un trattore, una cosa impensabile per la mentalità dell’epoca” dice una delle sorelle Tessari ma la storia ha poi dato ragione alla temerarietà di questa giovane coppia, perché tutte le sorelle entrano in azienda con energia e con grande voglia di innovare e crescere.

    sorelle Tessari

    Suavia e le sorelle Tessari, Meri, Alessandra e Valentina, nascono proprio su questi territori, in Contrada Fittà, nel cuore del Soave Classico, terra ricca di biodiversità.

    Da questo instancabile lavoro portato avanti da Alessandra, Meri e Valentina nasce la linea “I Luoghi”, una vera dichiarazione d’amore per il loro territorio, la sua tradizione e la sua profonda personalità. Un progetto che vede la luce dopo 5 anni di lavoro e che si realizza in queste 2000 bottiglie che raccontano una meticolosa ricerca in cantina e in vigna nelle zone Fittà, Castellaro e Tremenalto, località il cui terreno, esposizione e microclima le hanno da sempre rese apprezzate per la viticoltura nel contesto del Soave Classico, tanto da essere riconosciute ed inserite all’interno del disciplinare di produzione come U.G.A. (Unità Geografiche Aggiuntive)

    Questitre piccoli appezzamenti di proprietà dell’azienda ottengono sempre uve molto espressive. Per creare le 2.000 referenze le uve Garganega, varietà simbolo dell’area, sono state vinificate separatamente ma in maniera identica e il risultato sono tre vini originali e perfettamente distinguibili l’uno dall’altro.

    L’anima de “I Luoghi”

    Ogni bottiglia di questa linea è un autentico tributo ai luoghi da cui provengono le uve. La Cantina Suavia ha adottato un approccio meticoloso nella selezione dei vigneti, assecondando le peculiarità del suolo, del microclima e delle varietà di uve autoctone.

    Un’esperienza di degustazione all’interno della gamma “I Luoghi” diventa quindi un viaggio attraverso i vigneti della cantina Suavia.

    Fittà

    Questo vino proviene da un vigneto nella U.G.A. Fittà, estensione 1 ettaro a ca. 240 m slm con una esposizione sud,est. Vigne vecchie (anno di impianto 1943) che sanno regalare un vino con una intensa espressività aromatica, con note esotiche, aggrumate e floreali.

    Castellaro

    La U.G.A. Castellaro sa regalare un vino fine ed elegante. Un vigneto con una estensione di ca. 3600 mq ad una altitudine di ca. 200 m slm esposto sul versante nord della dorsale che sale verso l’abitato di Fittà, caratterizzato da un substrato di vulcaniti basaltiche alterate.

    È un vino che si caratterizza al naso con un frutto molto ricco, giallo maturo e che mostra come, a distanza di poche centinaia di metri, il terroir possa donare vini così diversi tra loro.

    Tramenalto

    In questa U.G.A. il territorio è estremamente scosceso e quasi selvaggio. Ad una altitudine più bassa rispetto alle precedenti (siamo a 80/130 m slm), il vigneto di ca. 2 ettari ha una esposizione ad ovest ed una pendenza del 25% che raggiunge in alcuni punti il 40%.

    Le uve di questo vigneto producono un vino che forse più di tutti si discosta dall’immagine che molti di noi hanno del tradizionale Soave: un vino profondo, lento nel concedersi e che ci chiede tempo per esprimersi al meglio. Al palato è fitto, complesso e porta il giusto appagamento in ogni sfumatura.

    Questo progetto delle sorelle Tessari porta sicuramente con sé un grande messaggio: parlare di “terreno vulcanico” risulta estremamente limitativo: le tre etichette della cantina Suavia mostrano la grande varietà delle espressioni del territorio del Soave. Tre vigneti, tre suoli e tre vini che nascono dalla stessa uva, con stessa matrice vulcanica del suolo ma ciascuno di loro rappresenta un unicum identitario. LEGGI TUTTO

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    Oltrepò Pavese, terra Pinot Nero e di rinascita

    Quando devo approcciarmi all’approfondimento di un territorio, una sorta di automatismo mi porta sempre alla rilettura di Vino al Vino; o meglio, alla lettura dei passaggi dove Mario Soldati entra nel vivo del mio viaggio alla ricerca di “qualche vino” genuino. Per quanto riguarda la Lombardia, Soldati si sofferma lungamente e con particolare enfasi sulla Valtellina, ma come ben ricordavo, va un po’ di fretta sull’Oltrepò Pavese.

    Tuttavia, è particolarmente gustoso l’aneddoto riguardo la data in cui si iniziano a piantare in Oltrepò i vitigni di pinot nero. Dapprima la questione appare piuttosto recente, addirittura nell’elenco dei vini pavesi che fornisce il Garoglio nel suo Nuovo trattato di enologia, uscito nel 1953, il pinot non è nemmeno nominato, salvo poi scoprire che nell’enclave di Montevecchia si fa uno “champagne” ottenuto da vitigni dell’antica tradizione, un trebbiano e un burgugnin. Soldati approfondisce e scopre che il burgugnin altro non è che il pinot nero e che, essendo Montevecchia una sorta di fossile vitivinicolo, quel vitigno deve essere arrivato in quel luogo da molto tempo.

    La vulgata vuole che sia stato il conte Augusto Giorgi di Vistarino, a metà dell’Ottocento, a portare il pinot nero dalla Francia per impiantarlo nella sua tenuta di Rocca de’ Giorgi in Oltrepò. Proprio in quegli anni Carlo Gancia, caro amico del conte Augusto Giorgi di Vistarino, fondava la Fratelli Gancia e si premurò di trasmettere al conte le tecniche spumantistiche per la produzione di Champagne che aveva appreso a Reims; nacque così, nel 1865, il primo spumante Metodo Classico italiano da uve pinot nero. Sin qui la storia, ma per il presente? L’Oltrepò è una terra di grande tradizione vitivinicola, con numeri importanti: 13500 ettari vitati, 1700 aziende vinicole, sulle colline dell’Oltrepò si produce il 62% del vino di tutta la Lombardia. Nel 1884 l’Oltrepò Pavese vantava 225 vitigni autoctoni, oggi se ne contano 12, anche se il disciplinare di produzione è piuttosto generoso per quanto riguarda le diverse tipologie di vino che si possono produrre.

    Vista l’ampiezza dei numeri citati, per una scelta di semplificazione comunicativa e per rimediare ad alcuni errori del passato, era necessario mettere un po’ d’ordine calando l’asso, ovvero puntando sul Pinot Nero, sia esso spumantizzato sia vinificato in rosso. Non dimentichiamoci che con più di 3500 ettari, il 27% della superficie vitata totale, l’Oltrepò Pavese è la terza zona di produzione per questo vitigno in Europa, dopo Champagne e Borgogna. Risulta incredibile il fatto che questo areale non sia la zona più conosciuta per la spumantistica in Italia, anche perché tutto è cominciato qui. Vi sono però una serie di concause che vanno tenute in considerazione: mezzadria, un sistema incentrato su piccole aziende a conduzione familiari che vendono le uve o lo sfuso agli imbottigliatori, distribuzione destinata ad un mercato prettamente locale che ha imposto prezzi fortemente iniqui, favorendo la quantità piuttosto che la qualità.

    Gilda Fugazza e carlo Veronese inauguramo “Oltrepò Terra di Pinot Nero”

    Tutto ciò, accompagnato ad altre situazioni difficili, ha fatto sì che la storia vinicola l’Oltrepò sia stata molto complicata. Negli ultimi anni però, grazie anche a una ritrovata unione tra i produttori, a investimenti ragionati, combinati ad una sapiente guida, Carlo Veronese per la direzione e Gilda Fugazza per la presidenza del Consorzio dell’Oltrepò Pavese, stiamo assistendo ad una vera e propria rinascita. Un esempio concreto in questo senso è la qualità dei vini presentati dalle aziende durante la manifestazione “Oltrepò – Terra di Pinot Nero, un territorio, un vitigno, due eccellenze”.

    I produttori dell’Oltrepò presenti all’Antica Tenuta Pegazzera di Casteggio

    La manifestazione, che si tiene presso l’incantevole Antica Tenuta Pegazzera di Casteggio, giunta alla sua terza edizione, quest’anno ha registrato numeri da record: più di 250 operatori, numerosa presenza di stampa nazionale e internazionale, 34 aziende partecipanti, 95 etichette presentate. Senza dimenticare due importanti masterclass, dedicate rispettivamente a Oltrepò Pavese Metodo Classico DOCG, e Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese DOC. Per quanto riguarda il metodo Classico è indubbia l’eccellenza raggiunta in termini di qualità media, senza dimenticare l’ottimo rapporto qualità prezzo, sicuramente molto più interessante rispetto ad altre zone spumantistiche italiane. Sempre parlando di qualità media, va anche detto che, è necessario puntare ad una maggiore finezza stilistica.

    Tra gli assaggi che più hanno lasciato il segno cito Francesco Quaquarini con il suo “Classese” Brut millesimato 2015, Terre di Bentivoglio con il Pas Dosè 40 mesi, Bruno Verdi con il “Vergomberra” Pas Dosè 2019, Calatroni Vini con il “Riva Rinetti” Pas Dosè 2018, Cantine Cavallotti con “La Bolla Blanc de Noir” Brut millesimato 2019, Lefiole con “Isabèl” Brut 2020. Decisamente una gran bella scoperta il Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese Doc. Di grande piacevolezza quando è di pronta beva vinificato in acciaio, ma anche quando viene affinato con un uso sapiente del legno, botte grande o barrique che sia.

    le masterclass

    Tra gli assaggi più convincenti: Calatroni Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese DOC Fioravanti 2022, La Genisia Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese DOC Centodieci 2019, Travaglino Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese DOC Poggio della Buttinera 2019, Frecciarossa Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese DOC Giorgio Odero 2018, quest’ultimo ottimo esempio di dove può arrivare il Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese con l’invecchiamento. In definitiva l’auspicio è che questo territorio sia sempre più consapevole della grandezza del suo patrimonio e sappia agire di conseguenza. Patrimonio, è importante ribadirlo, che non è solo vinicolo, ma anche paesaggistico e gastronomico, ovvero tutto ciò che oggi vuole trovare l’enoturista. Il tempo è galantuomo e l’Oltrepò si riprenderà il centro della scena, la dove merita di stare.

    Credit ph: La foto di copertina è tratta dal sito del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese LEGGI TUTTO