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    Il valore delle vecchie vigne maritate

    Quante sono le vecchie vigne (old vines) nel mondo? Di preciso ancora non si sa, ma esiste un registro per contarle, ed è in continuo aggiornamento. Oggi, alle 18.30 ora italiana, in collegamento via Zoom sarà possibile, a chi è interessato all’argomento, seguire il lancio ufficiale di questo progetto di caratura internazionale, ascoltando gli interventi di alcuni dei maggiori esperti mondiali di vigne antiche. Valore storico a parte, cosa posso darci e dirci, oggi, vigne ultracentenarie? E se sono, addirittura, maritate, e ancora in attività? A Montefalco sono numerosi i produttori che ancora vantano di possedere alcune di queste piante, e tutti ne parlano con una sorta di religioso rispetto. Chi le ha, le cura e le protegge come farebbe come un tesoro di famiglia, e da quelle piante ricava il vino più importante, o qualche selezione particolare; chi non le ha si guarda intorno, nella speranza di individuarne ancora qualcuna orfana di un proprietario, come se alla sua produzione mancasse irrimediabilmente ancora qualcosa. In un’epoca come l’attuale, in cui si parla di viticoltura di precisione, affidata ai rilevamenti di sensori in campo, droni e satelliti, che contributo possono dare questi retaggi di un passato agricolo sempre più lontano? Detta in altre parole, quali possono essere i principali motivi che oggi portano tanti produttori di Montefalco a cercare di fare ancora vini  da queste viti, che appaiono agli antipodi delle attuali tecniche agronomiche?“Credo che ci sia ancora molto da studiare e da capire, molto più di quello che si pensa”. Devis Romanelli, dell’omonima azienda di Montefalco, è uno dei produttori che può vantare qualche vigna maritata. La sua è una realtà a conduzione famigliare nata nel 1978, che tra vigneti e oliveti conduce in regime biologico 30 ettari di proprietà, cercando con ogni mezzo di essere per l’ambiente un motivo di benessere, e non di pericolo o di disturbo. Un vigneto bio è un ambiente molto ricco di insetti, ma le potature non permettono di costruirvi nidi: per questo tra le sue vigne Devis ha collocato una serie di casette (di varie dimensioni e caratteristiche), così che uccelli grandi e piccoli siano incoraggiati ad abitarle. Un esperimento che finora sta dando ottimi risultati (e che aiuta a tenere sotto controllo le eventuali infestazioni di insetti dannosi). La sua vigna maritata è di una varietà a bacca bianca, il Trebbiano Spoletino, da cui ricava il suo “Le Tese”: uno dei migliori bianchi che si possano trovare in questa terra famosa (finora) per i rossi. L’annata che abbiamo assaggiato, la 2021, di un giallo dorato, ha profumi fruttati- floreali di mela Golden matura, melone, ananas, albicocca, gelsomino, il tutto sfumato di erbe dell’orto (rosmarino in primis). In bocca è coerente: ricco, lungo e molto fresco. Un vino che, a detta dello stesso Devis, deve molto alla sua vigna.Spiega Romanelli: “La risposta produttiva delle viti maritate con l’ acero campestre (parlo di queste perché sono quelle che ho io) è sorprendente sia in termini di produzione (100-150 kg di uva ciascuna), che di maturazione delle uve, soprattutto considerando il grande carico di uve per producono. La consociazione tra diverse specie vegetali non è certo una novità, ma negli ultimi anni sta tornando in voga, soprattutto negli orti domestici. Qui la consociazione tra diversi ortaggi da’ dei risultati straordinari in termini di produttività e difesa dai parassiti. Per questo, oltre al loro valore storico, possiamo pensare di avere dalle viti maritate anche benefici in termini di produzione e qualità delle uve. Possiamo perfino prenderle ad esempio in alcune situazioni estreme”. A cosa ti riferisci? “Tanto per fare un esempio, penso alle criticità legate ai colpi di calore, che nelle annate più calde e siccitose affliggono i vigneti messi a spalliera. In questi vigneti le uve più esposte al sole possono essere letteralmente “cotte” dalle radiazioni solari. In questo caso, il naturale ombreggiamento dei grappoli è favorito dall’ acero campestre, che crea una sorta di cappello sopra alla vite. Inoltre, sotto la chioma dell’albero le viti sono meno soggette alle gelate. Recentemente ho trovato un articolo in cui si spiegava come soprattutto l’ acero campestre fosse in grado di ospitare sulla sua chioma una grandissima quantità di fitoseidi (acari molto utili alla difesa della vita), che poi scendevano fino alla chioma della vite, colonizzandola. Inoltre – prosegue Romanelli – è interessante notare come le radici di vite e acero riescano a convivere nel medesimo spazio senza mai darsi fastidio. Anche nelle annate più secche, una più superficiale (acero) e l’ altra più profonda (la vite), riescono ad avere una simbiosi perfetta. Insomma – conclude – c’è ancora tanto da scoprire, ma credo che lo studio di questi sistemi di consociazione possa essere utile. E chissà, potrebbe addirittura essere di ispirazione per nuovi modelli di viticoltura, che nei prossimi decenni dovremo per forza sviluppare per adattarci ai cambiamenti climatici”. LEGGI TUTTO

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    Staforte: la prova del tempo

    Se c’è una regola aurea nel mondo del vino è che tutto è relativo. Niente è assoluto, o valido per tutti. La formula taglia unica non esiste. Ciò che è perfetto per uno, è da evitare come la peste per un altro. Questione di obiettivi, di stile produttivo, di filosofia personale. Chi pensa che la chiusura ideale di un vino d’alta gamma possa essere solo il tappo in sughero monopezzo non oserà mai mettere un tappo a vite sulle sue bottiglie più pregiate. Chi crede che il grande vino possa evolversi solo in legno guarderà con diffidenza chi invece usa altri contenitori, dal cemento alla terracotta all’acciaio. E il bello del mondo del vino è anche questo: c’è posto per tutto e per tutti. Graziano Pra, storico produttore di Monteforte d’Alpone, appartiene a quella schiera di produttori che non teme di andare controcorrente o di sperimentare soluzioni che qualcuno definirebbe azzardate, se fanno al caso suo. E’ il caso del suo Soave Classico DOC “Staforte”: nasce da una selezione delle uve migliori dei suoi vigneti più vecchi (50-70 anni) di Monteforte d’Alpone, coltivati su suoli vulcanici tra i 150-250 metri e allevati a pergola veronese e Guyot. Un bianco che fermenta e matura solo in acciaio, con un’attenta e metodica pratica di bâtonnage svolta direttamente nel fermentino per almeno sei mesi. La prima annata di questo vino fu la 2004. “ In quegli anni uscivamo da due novità dirompenti – racconta lo stesso Pra – L’arrivo anche nel Soave dello Chardonnay e la moda imperante della barrique. Io li provai entrambi, e li scartai. Non rispondevano al mio stile”. L’intento era quello di fare un grande bianco solo in acciaio: ma come? Parlando con un enologo francese, scoprì che in Francia usavano fare bâtonnage nelle barrique: Pra applicò lo stesso sistema al fermentino in acciaio. Una specie di pala posta sul fondo con un movimento lento e regolare rimescola le fecce fini in maniera omogenea: “I lieviti sono sempre in sospensione, le pareti cellulari si rompono e cedono le mannoproteine, che donano una sensazione di maggior volume in bocca. Al tempo stesso il vino si stabilizza sia da un punto di vista proteico che tartarico”. L’uscita sul mercato del nuovo Soave “Staforte” (come anticamente si chiamava il Comune di Monteforte) fu immediatamente salutata con grande favore sia dai consumatori che dalla critica: un successo che continua da allora, basti guardare l’elenco di “3 Bicchieri” che si è conquistato negli anni (l’ultimo è dell’anno scorso). Assaggiato a distanza di quasi 20 anni, questo Soave dalla veste giallo intenso tendente al dorato si rivela ancora esuberante: profuma di zafferano, melone, pesca e fiori gialli, che in bocca si ripresentano con grande freschezza e pulizia. Anche l’annata 2006 è di un giallo intenso, ma con riflessi più platinati. Al naso si presenta un po’ più chiuso del precedente, con sentori di erbe mediterranee aromatiche, la cui freschezza ben si abbina a un gusto che ricorda una mela Golden molto matura. Dopo un 2007 con profumi più scuri, minerali e un 2009 sapido e con note di frutta bianca e una leggera spezia dolce sul finale, il 2013 sorprende con un bouquet di aromi dolci, che richiamano il miele d’acacia e l’albicocca matura: in bocca però è sempre vibrante, succoso di frutta gialla matura, si fa bere con piacere. Dopo uno strano 2015 dalle note un po’ agliacee al naso, con il 2016 inaugura la nuova stagione: quella dei vini chiusi con tappo a vite. “Amo questa chiusura perché mi rispetta – è il commento del produttore – Voglio poter assaggiare questo vino tra 20 anni, e ritrovarlo così com’è oggi”. Il naso è ricco e variegato: alle erbe aromatiche di campo (menta soprattutto) si accompagnano accenni di idrocarburo e polvere da sparo e di buccia di limone verde. In bocca è lungo, pulito, molto equilibrato, sapido e totalmente secco, come tutti i precedenti. L’annata successiva (2017) presenta un accenno di frutta gialla anche tropicale sia al naso che in bocca, mentre la 2021 presto in commercio ha un naso mieloso ancora più pronunciato del 2013, che presto però si trasforma in aromi tropicali e agrumati e al gusto presenta frutta gialla e bianca mature, con un ricordo di fiori di sambuco. Un Soave che sembra una fedele fotografia dell’ambiente naturale da cui proviene. LEGGI TUTTO

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    Camaiola, il vino della ripartenza

    Se non fosse una coincidenza si potrebbe pensare ad un segno del destino. In un momento in cui l’Italia prova a ripartire, un’ antica varietà del Sannio, da sempre sinonimo di festa, riceve  l’OK del Comitato nazionale per la classificazione delle varietà di viti alla sua  richiesta di iscrizione al Registro delle Varietà di viti. Tra poco perciò potremo salutare il riconoscimento ufficiale di una nuova stellina nel già ricco firmamento dei vitigni italiani. La dimostrazione che il patrimonio ampelografico nazionale è più ricco di quel che sembra e che le sorprese non sono (ancora) finite. Benvenuta dunque a Camaiola, un’uva nera simbolo della viticoltura di Castelvenere, di cui si spera di poter sentire parlare sempre di più in futuro. Il primo incontro – anzi, il primo assaggio – fu nel 2019, durante un breve ma intenso e bellissimo press tour organizzato dal Consorzio Tutela Vini dal Sannio. Nella ricca e quasi esaustiva degustazione di vini del Sannio (Falanghina, Aglianico, Greco, Fiano, Piedirosso, ecc.) ci presentarono anche questo curioso vino, tratto da una antichissima varietà all’epoca quasi scomparsa e nota fino a quel momento come Barbera del Sannio ma dai locali chiamata Camaiola.Fu conquista al primo sorso:  per il profumo di rosa, di piccoli frutti rossi maturi e dolci con accennati sentori di menta, per il gusto coerente e setoso, con tannini che scivolavano sullo sfondo. Un vino giovane, fresco, accattivante e godibile, con un grande potenziale di consumo presso quelle schiere di Gen-qualcosa varie e assortite sempre alla ricerca di alternative buone da bere, da chiacchierare, e perfino da fotografare. Un vino da party, da allegria. Il vino ideale della ripartenza.Il Camaiola, ci spiegarono, ufficialmente non viene lavorato in legno, né pare essere vino da invecchiamento.  Perchè allora si chiama  “Barbera”, dato che non sembra avere le caratteristiche di quel vitigno? Negli anni Dieci del secolo scorso, visto il successo del Barbera piemontese, i campani decisero di chiamare con questo nome  anche la loro uva rossa autoctona: un fraintendimento che in seguito  l’Ispettorato agrario avallò, ovviamente confondendo l’uva campana con la cultivar piemontese* che pure era presente sul territorio. Per anni questo vitigno fu utilizzato soprattutto nei blend grazie al suo potere colorante: il nome stesso, Camaiola, deriverebbe da una parola provenzale che si riferisce ad un’uva capace di “macchiare di nero”. In anni più recenti, con il miglioramento delle tecniche di produzione e vinificazione, un numero crescente di produttori ha deciso di darle le attenzioni che merita. Il risultato sono vini di un bel colore rosso scuro abbastanza fitto, di media struttura,  molto profumati. Vini capaci di trasferire nel bicchiere le differenze di terroir senza mai però tradire il vitigno d’origine, che rimane sempre riconoscibilissimo. Ora, finalmente, potranno presentarsi ai mercati con il loro vero nome e aggregarsi al drappello di vini campani che parlano d’Italia al mondo.  *in effetti, la vera Barbera fu portata dai piemontesi quando anche in Campania arrivò la fillossera. Ora non é più diffusa, e anche Bonarda e Freisa sono state abbandonate.  LEGGI TUTTO

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    Il ritorno del Mamertino, il vino di Giulio Cesare

    E’ uno dei vini più antichi della storia, citato da Plinio il Vecchio che lo mette al 4° posto tra i 195 vini da lui citati nel “De Rerum Natura”, e dal geografo Strabone che lo classificò tra i miglori della sua epoca. Piaceva anche a Giulio Cesare, che lo volle in tavola quando diede […] LEGGI TUTTO

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    Vini naturali: la passione non basta (più)

    “Il vino biologico non esiste”. Luigi Veronelli la pensava così. Per lui il vino era materia viva (e quindi biologica per definizione): non poteva esserci un vino non biologico, sarebbe stata una contraddizione in termini. Erano i primi anni ‘90 e nella nicchia dei naturali c’era un sacco di fermento: si lottava sul fronte dei […] LEGGI TUTTO

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    Gli Amarone della Valpolicella di Villa de Winckels

    Gli Appuntamenti con la tradizione che da ormai una decina d’anni i fratelli Merzari organizzano nella loro bella Villa de Winckels (ristorante, hotel, bistrot), sono dei piccoli eventi enogastronomici magnificamente organizzati che ogni volta richiamano centinaia di appassionati da Verona e zone limitrofe. Il luogo – Tregnago – non è proprio a portata di mano […] LEGGI TUTTO

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    Il Sagrantino di Montefalco, tra realtà e percezione

    Chi ha avuto la ventura di assaggiarlo 25 e più anni fa, probabilmente ricorderà la sensazione di carta vetrata a grana media che restava in bocca dopo il primo sorso di Sagrantino di Montefalco. Il Sagrantino è il vitigno più tannico d’Italia, è la sua caratteristica, e domarlo è come cercare di mettere la briglia […] LEGGI TUTTO

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    Anteprima Amarone 2015: assaggi sparsi

    L’Amarone della Valpolicella sta – in parte – cambiando pelle. Lo fa per l’affacciarsi sulla scena di nuove piccole aziende, rette principalmente da giovani che vogliono smarcarsi dall’andazzo attuale – e per farlo, anzichè guardare al presente, s’ispirano al passato remoto. Lo fa grazie anche all’arrivo (in cantine storiche) di enologi con trascorsi professionali importanti […] LEGGI TUTTO