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    Schioppettino di Prepotto: la rinascita di un’identità friulana

    E pensare che lo Schioppettino, oggi simbolo di eleganza e territorialità, un tempo era un vino proibito. Fino alla metà degli anni Settanta piantarne una barbatella equivaleva a commettere un reato, come se si trattasse di un vitigno clandestino, di quelli che crescono ai margini della legge e della memoria. Eppure, proprio in quegli anni di oblio, si gettarono le basi della sua rinascita.

    Fu la curiosità di Giannola e Benito Nonino, alla ricerca di vinacce per le loro grappe, a riportare alla luce lo Schioppettino insieme ad altri vitigni friulani in via d’estinzione — Ribolla, Pignolo, Tazzelenghe. Con l’intuizione del Risit d’Aur, la “barbatella d’oro” ideata con Luigi Veronelli, il gesto di reimpiantare divenne un atto di resistenza culturale. Nel 1976 il premio andò a Dina e Paolo Rapuzzi, pionieri di Ronchi di Cialla, che fecero dello Schioppettino una bandiera di Prepotto.

    Fu solo nel 1981 che il vitigno venne finalmente reinserito tra quelli autorizzati, grazie anche al coraggio di un intero paese che, in seduta straordinaria, chiese di riscattare il proprio vino più identitario. Da allora lo Schioppettino ha ritrovato la strada del futuro, tornando a raccontare la valle dello Judrio e la sua geografia fatta di confini, boschi e colline dove l’aria sa di pepe e di pietra.

    Oggi, a distanza di mezzo secolo, si può dire che per lo Schioppettino di Prepotto sia arrivata una nuova primavera. Non più un simbolo di resistenza, ma di maturità. L’Associazione dei Produttori, fondata nel 2002 e ora profondamente rinnovata, rilancia una sfida ambiziosa: fare dello Schioppettino il cuore produttivo e identitario del territorio.

    Il nuovo presidente Riccardo Caliari (Spolert Winery) parla di un sogno condiviso: «Vogliamo che lo Schioppettino di Prepotto diventi il vino principale delle aziende del paese, espressione di uno stile elegante e riconoscibile, capace di competere sui mercati italiani e internazionali». Un progetto di lungo respiro — dai cinque ai dieci anni — che richiederà energie, visione e coesione, ma che parte da solide radici.

    Perché qui, tra le pieghe dei Colli Orientali, il terroir ha una voce distinta. È la voce del sottobosco, della mora e del pepe nero, della freschezza che si intreccia alla profondità. Lo Schioppettino di Prepotto, riconosciuto nel 2008 come sottozona ufficiale della DOC Friuli Colli Orientali, è un vino che racconta il confine, la sua memoria contadina e la sua vocazione naturale all’eleganza.

    Da fuorilegge a simbolo: lo Schioppettino di Prepotto continua a rappresentare una delle più belle parabole della viticoltura italiana. Oggi la sua rinascita non è solo produttiva, ma culturale. È il ritorno di una voce antica che, dopo secoli di silenzio, torna a parlare la lingua del futuro.

    Schioppettino di Prepotto: the renaissance of a Friulian identity

    To think that Schioppettino, now a symbol of elegance and territorial identity, was once a forbidden wine. Until the mid-1970s, planting even a single vine of Schioppettino was a crime — as if it were an outlaw grape, one that thrived on the margins of law and memory. Yet it was precisely in those years of oblivion that the seeds of its rebirth were sown.

    It was the curiosity of Giannola and Benito Nonino, searching for pomace for their grappas, that brought Schioppettino back to light — together with other nearly extinct Friulian varieties such as Ribolla, Pignolo, and Tazzelenghe. With the visionary Risit d’Aur award, the “golden vine cutting” created with Luigi Veronelli, replanting became an act of cultural resistance. In 1976 the first prize went to Dina and Paolo Rapuzzi of Ronchi di Cialla, true pioneers who turned Schioppettino into the emblem of Prepotto.

    Only in 1981 was the grape officially reauthorized, thanks to the courage of an entire community that, in an extraordinary council session, petitioned to reclaim its most authentic wine. Since then, Schioppettino has found its way back to the future, once again telling the story of the Judrio Valley — a landscape of borders, forests, and hills where the air smells of pepper and stone.

    Today, half a century later, Schioppettino di Prepotto is living a new spring. No longer a symbol of defiance, but of maturity. The Association of Schioppettino Producers, founded in 2002 and now profoundly renewed, is launching an ambitious challenge: to make Schioppettino the beating heart of the area’s production and identity.

    The new president, Riccardo Caliari (Spolert Winery), speaks of a shared dream: “We want Schioppettino di Prepotto to become the main wine of our producers — an elegant and distinctive style capable of standing out on both the Italian and international markets.” It’s a long-term project, a journey of five to ten years that will demand energy, vision, and unity — but it begins from solid roots.

    Here among the folds of the Colli Orientali, the terroir speaks with its own voice — one of undergrowth, blackberry, and black pepper, where freshness meets depth. Recognized in 2008 as a designated subzone of the Friuli Colli Orientali DOC, Schioppettino di Prepotto is a wine that tells the story of a borderland, its rural memory, and its natural vocation for elegance.

    From outlaw to icon: Schioppettino di Prepotto remains one of the most compelling stories in Italian viticulture. Its renaissance today is not only about production but culture — the return of an ancient voice that, after centuries of silence, once again speaks the language of the future.

    Nella foto di copertina l’Associazione Produttori Schioppettino di Prepotto LEGGI TUTTO

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    Vigne, mare e memoria: il viaggio di Tullum

    Nell’antica Roma la vita era un equilibrio continuo tra negotium e otium: da un lato il vortice delle faccende pubbliche, dei commerci, delle guerre e della politica; dall’altro il bisogno di ritirarsi in luoghi appartati, dove il tempo poteva scorrere più lento, tra il mare e i vigneti. Proprio lungo queste coste d’Abruzzo, a Tollo, i nobili romani avevano costruito ville marittime che univano il piacere della contemplazione alla concretezza del lavoro agricolo. Non erano semplici residenze di villeggiatura, ma autentiche aziende ante litteram, con spazi dedicati alla produzione del vino e dell’olio.

    Oggi, tra quelle stesse colline con lo sguardo rivolto all’Adriatico, sorge la sede di Feudo Antico: un’azienda che non solo custodisce i reperti di quella villa rustica romana, ma ne raccoglie l’eredità culturale trasformandola in progetto vivo, nel cuore della DOCG Tullum. Un filo che attraversa i secoli lega così il vino di oggi al senso più autentico dell’otium romano: un tempo ritrovato, fatto di natura, bellezza e sapienza agricola.

    Una DOCG che parla la lingua del territorio

    Il nome Tullum compare ufficialmente nel mondo del vino nel 2008, quando nasce una delle più piccole Dop d’Italia. Undici anni dopo, il 4 luglio 2019, arriva la consacrazione della DOCG: il livello più alto nella gerarchia delle denominazioni italiane. Non è soltanto un riconoscimento formale, ma una testimonianza concreta della qualità e della vocazione vitivinicola delle terre tollesi, dove storia, tradizione e ricerca convivono da secoli.

    La continuità è la vera forza di questo territorio. Dai Longobardi ai Normanni, fino al Regno di Napoli, le dominazioni che si sono succedute hanno rispettato, e in molti casi consolidato, la specificità agricola di Tollo. Anche le ferite della Seconda Guerra Mondiale non hanno fermato i coltivatori: il paese fu distrutto insieme ai vigneti, ma la ripresa della viticoltura segnò un vero rinascimento, evitando un fenomeno migratorio di massa che avrebbe svuotato la comunità.

    Tra Adriatico e Maiella: un mosaico di vigne

    Il territorio di Tollo è un piccolo tesoro sospeso tra mare e montagna. A 150 metri sul livello del mare, le colline si aprono verso l’Adriatico e, alle spalle, incontrano la Maiella e il Gran Sasso. Questo dialogo tra vento marino e altitudine crea escursioni termiche favorevoli e una varietà di suoli che rendono il paesaggio straordinariamente vocato alla viticoltura.

    Per valorizzare queste caratteristiche, Feudo Antico ha avviato un progetto di zonazione guidato dal professor Attilio Scienza. Lo studio ha permesso di leggere ogni singolo versante come un micro-terroir, riconoscendo le peculiarità di suolo, esposizione e microclima. Il risultato è la DOCG Tullum così come la conosciamo oggi, con quattro tipologie principali e un’attenzione particolare alle varietà autoctone come Montepulciano, Pecorino e Passerina, in grado di esprimere pienamente le sfumature del territorio.

    Il Consorzio e le cantine della DOCG

    Il Consorzio Tullum raccoglie tre realtà complementari, ciascuna con una propria storia e vocazione, unite dall’obiettivo di valorizzare il territorio e le sue produzioni: Feudo Antico, Vigneti Radica e la Cooperativa Agricola Coltivatori Diretti Tollo (CCDD).

    Daniele Ferrante – enologo Feudo Antico

    Feudo Antico è un incubatore di archeo-enologia, è il primo esempio in Italia di museo archeologico dentro una cantina. La sede, inaugurata nel 2021, ospita i reperti della villa romana di San Pietro e il primo vigneto impiantato esattamente dove duemila anni fa sorgeva la grande azienda agricola romana. Su 30 ettari di vigneti, l’azienda produce circa 150.000 bottiglie. Qui la sostenibilità non è una parola di tendenza, ma una regola di vita: rese basse, coltivazioni rispettose e vinificazioni che privilegiano la spontaneità del processo naturale.

    Le etichette raccontano l’identità di Tollo in chiave contemporanea: dai bianchi Tullum Pecorino DOCG e Passerina DOCG, ai rossi Tullum Rosso DOCG, Rosso Riserva DOCG e Rosso Inanfora DOCG Biologico, fino alla linea a fermentazione spontanea che comprende un Pecorino Biologico Tullum DOCG, un Rosato Biologico Terre di Chieti IGP e un Rosso Biologico Tullum DOCG. A completare il mosaico, lo Spumante Brut Metodo Classico Tullum DOP, simbolo della vocazione di Feudo Antico per l’eleganza e la finezza.

    Ma forse il progetto più emblematico della filosofia aziendale è quello nato dall’incontro con lo chef tristellato Niko Romito: il Pecorino Terre Aquilane IGP Casadonna. Alla ricerca di un terreno che potesse amplificare la purezza del vitigno, Feudo Antico è salita fino a Castel di Sangro, dove Romito ha costruito il suo centro di ricerca e formazione. A oltre 800 metri d’altitudine, tra boschi e silenzi montani, il Pecorino cresce in un ambiente estremo, capace di regalare vini di straordinaria tensione minerale, freschezza agrumata e vibrante verticalità. È un vino che parla la lingua della montagna, ma conserva l’anima mediterranea delle origini: un incontro tra misura, profondità e essenzialità, come la cucina dello chef che lo ha ispirato.

    Giacomo Radica – enologo Vigneti Radica

    Vigneti Radica racconta tre generazioni di viticoltori. Il simbolo della famiglia Radica è un toro, in dialetto “li Ture”. Non un emblema di forza cieca, ma di energia paziente, radicata nella terra. Tre generazioni – dal nonno Rocco al padre Antonio fino a Giacomo, che oggi guida l’azienda – hanno trasformato questa energia in un progetto coerente, che unisce vigne e paesaggio in un equilibrio fatto di gesti e tempi misurati.

    I vigneti, trent’ettari distribuiti tra Tollo, Ari, Fara Filiorum Petri e Ortona, disegnano un percorso che parte dalla montagna e arriva al mare. Tutto è condotto in biologico, ma senza slogan: è un modo di lavorare che asseconda la fertilità naturale dei terreni e rispetta la vitalità del suolo. Anche la cantina riflette questo equilibrio, costruita con materiali locali – legno, pietra, luce – e pensata per respirare insieme al paesaggio.

    I vini nascono da uve raccolte a mano di Montepulciano, Pecorino e Passerina, e restituiscono un’identità coerente con la DOCG Tullum: vini di precisione, ma non di maniera.

    La Cooperativa Agricola Coltivatori Diretti Tollo, fondata nel 1962, è oggi una realtà solida con circa 300 soci e oltre 700 ettari di vigneto. La cooperativa mantiene viva la tradizione contadina del territorio, producendo grandi volumi di uve rosse e bianche tipiche – Montepulciano, Trebbiano, Pecorino, Passerina e Cococciola – ma sempre con l’attenzione alla qualità richiesta dal disciplinare DOCG.

    I vini degustati

    Feudo Antico Passerina Tullum DOCG 2023Un bianco essenziale e luminoso, in cui la morbidezza si intreccia con una freschezza salina che dona scatto e ritmo. Il finale ammandorlato ne definisce la firma delicata e precisa.

    Vigneti Radica Passerina Tullum DOCG 2023Un sorso agile e minerale, vibrante di agrumi e di erbe. Energico, limpido, immediato: racconta la vitalità della costa abruzzese in chiave nitida e contemporanea.

    Feudo Antico Pecorino Tullum Biologico Fermentazione Spontanea 2024Un vino di straordinaria personalità. La fermentazione spontanea ne amplifica la complessità: materia e tensione convivono in un equilibrio raro, tra morbidezza iniziale e una scia sapida e precisa che chiude lunga e profonda. Un grande bianco italiano, capace di evolvere e di toccare corde sottili.

    Vigneti Radica Pecorino Tullum DOCG 2022Deciso, verticale, immediato. La freschezza agrumata domina un sorso netto, teso, che lascia la bocca pulita e la mente vigile. È il Pecorino nella sua veste più diretta e schietta.

    Feudo Antico “InAnfora” Pecorino Tullum DOCG Biologico 2022Un bianco che sfida le regole, unisce struttura e delicatezza, luce e profondità. La trama è ampia, quasi materica, ma sempre sorretta da una vitalità che lo rende sorprendentemente dinamico. Il suo equilibrio tra frutto sale e terra lo colloca tra i vini da ricordare.

    Feudo Antico “InAnfora” Rosso Tullum DOCG Biologico 2022Un Montepulciano di rara eleganza. La maturazione in anfora scolpisce un sorso vivo, sincero, di frutto puro e tannini finissimi. Fresco, profondo, con una persistenza che conquista senza bisogno di potenza. È un rosso che parla con voce propria: pulita, armonica, essenziale.

    Vigneti Radica Rosso Tullum DOCG 2020Materico e vigoroso, con un cuore fruttato che si apre lentamente. La struttura è piena, compatta, sostenuta da una freschezza che gli dona equilibrio e una lunga chiusura speziata.

    Feudo Antico Rosso Tullum DOCG 2020Armonico e immediato, gioca tra dolcezza di frutto e morbidezza dei tannini. Un rosso di grande bevibilità, che racconta la misura e l’eleganza della denominazione.

    Feudo Antico Rosso Riserva Tullum DOCG 2019Profondo, ampio, meditativo. La trama tannica è finissima, la materia è generosa ma sempre composta. Un rosso che unisce intensità e grazia, restando nel segno della finezza.

    Radici e orizzonti

    Se nell’epoca romana l’otium era rifugio e ricerca di bellezza tra mare e vigne, oggi la DOCG Tullum raccoglie quell’eredità trasformandola in un progetto di comunità. Ogni filare racconta la resilienza di una terra che ha saputo rinascere più volte, trovando nella vite il suo respiro più autentico. Non si tratta solo di vino, ma di identità: di un luogo che continua a vivere nella memoria dei suoi abitanti e che, attraverso il lavoro dei vignaioli, offre al mondo il dono di un paesaggio tradotto in calice.

    Il Tullum è così: un vino che non si limita a celebrare la qualità, ma che custodisce la storia di un popolo e la restituisce in forma liquida, capace di unire cultura, natura e passione. Un vino che guarda avanti con la consapevolezza di chi ha radici antiche e solide, profonde come quelle vigne che, da secoli, disegnano le colline tra l’Adriatico e la Maiella. LEGGI TUTTO

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    Casentino segreto: Poggiotondo tra arte, vino e natura

    Ho conosciuto Lorenzo Massart, proprietario di Poggiotondo, al Vinitaly di molti anni fa. Non fu soltanto il vino a sorprendermi, ma l’uomo che lo raccontava. Rimasi folgorato dal suo Vinsanto del Chianti Collefresco, che allora – come oggi – continua ad essere uno dei più buoni mai prodotti in Toscana, quindi nel mondo. Ma rimasi colpito anche da Lorenzo stesso: avvocato, pittore, vignaiolo e agricoltore, un uomo eclettico e generoso, capace di mescolare ironia e passione come pochi altri. In un territorio poco noto alla viticoltura toscana come il Casentino, riusciva a tirar fuori vini di straordinario carattere.

    Siamo a Subbiano, nord di Arezzo. Qui, nel cuore di una valle che la maggior parte dei toscani associa più al paesaggio e alla gastronomia che al vino, Lorenzo ha scelto di dar vita al suo progetto. L’azienda di famiglia, acquistata nel 1973, poggia su terreni argillosi e galestrosi, in posizione collinare: il luogo ideale per ospitare sangiovese e canaiolo, con piccoli tocchi di malvasia e trebbiano. È qui che Lorenzo e la moglie Cinzia Chiarion hanno deciso di scommettere su un sogno: produrre vino e olio di qualità, senza compromessi, restando fedeli alle radici del Casentino.

    Lorenzo Massart

    I vini di Poggiotondo sono figli autentici di questa filosofia, che riflettono la personalità di chi li produce. Poggiotondo, il rosso che porta il nome dell’azienda, è forse il prediletto di Lorenzo: diretto, ruvido, sincero, maturato solo in cemento, senza mai vedere il legno. “In Toscana non dobbiamo scimmiottare i francesi – dice – il nostro compito è far parlare il Sangiovese”. Le Rancole, marchio storico della cantina, affina invece in parte in piccole botti e riposa poi a lungo in bottiglia, offrendo un’espressione più elegante. A queste etichette si affianca il C66, creato da Cinzia: un blend di sangiovese e merlot, morbido e avvolgente, ma il capolavoro resta il Vinsanto, custodito in una suggestiva sala con i caratelli, memoria liquida del tempo che scorre lento.

    Cinzia Chiarion

    Accanto al vino, l’olio: oltre 800 ulivi – molti dei quali moraiolo – raccolti a mano e moliti in giornata. Cinzia se ne occupa con cura quasi maniacale, portando in bottiglia un extravergine che riflette la stessa autenticità dei vini.

    Poggiotondo non è solo un’azienda: è un microcosmo. Ci sono gli asini sardi, simbolo gentile e testardo della tenuta, presenti fin dagli anni Sessanta. Ci sono gli amici, i giornalisti, i curiosi che ogni anno partecipano alla vendemmia, trasformata in rito di condivisione. E soprattutto c’è Lorenzo, che con il suo carattere ribelle non ha mai cercato scorciatoie. Cresciuto tra i campi di Poggiotondo, con una passione precoce per gli animali e la vita all’aria aperta, ha sempre mantenuto uno sguardo curioso e indocile. Avvocato di professione, ma anche pittore autodidatta e viaggiatore instancabile, ha trasformato il suo paradiso casentinese in un luogo dove natura, arte e vigna convivono senza confini. I suoi quadri, astratti e sgargianti, riflettono la stessa energia vitale che si ritrova nei vini: diretti, sinceri, liberi da compromessi. Lorenzo è un uomo che sfugge alle definizioni, e Poggiotondo non è solo un’azienda agricola, ma la proiezione della sua personalità eclettica. A distanza di trentacinque anni dall’inizio di questa avventura, Poggiotondo è una realtà consolidata. Non un colosso, ma un presidio di autenticità. Una voce che testimonia come il Casentino, terra finora laterale nella mappa del vino toscano, possa diventare un orizzonte nuovo, una frontiera capace di regalare emozioni vere.

    Chi entra a Poggiotondo non trova solo una cantina: trova un mondo che profuma di galestro e di mosto, di olio appena franto e di stalle con gli asini. Trova Lorenzo e Cinzia, due personalità complementari che hanno scelto di difendere un territorio con la forza delle loro idee. E trova vini che non ammiccano a mode o mercati, ma che parlano la lingua più pura: quella della passione.

    I vigneti, la vendemmia, la cantina

    Poggiotondo conta poco più di quattro ettari di vigne, tutte nel cuore del Chianti. Qui il terreno è quello tipico del Casentino, ricco di galestro, e le vigne affondano le radici tra sangiovese, canaiolo, trebbiano e malvasia, con qualche nuovo impianto più recente accanto a filari storici che superano i cinquant’anni.

    La vendemmia è sempre manuale, fatta a inizio ottobre con cassette piccole per rispettare ogni grappolo. È un lavoro paziente e lento, che precede l’ingresso in cantina: qui l’uva viene vinificata in vasche di cemento o vetrocemento, un materiale caro a Lorenzo perché conserva freschezza e autenticità. Il legno si usa solo quando serve, mai per mascherare il vino. A Poggiotondo ogni dettaglio è pensato per esaltare il carattere della vallata.

    I vini di Poggiotondo

    C66 2022È il vino di Cinzia, pensato “da una donna per le donne”, ma non solo. Nasce da sangiovese con una piccola parte di merlot, ed è il più morbido della famiglia: vellutato, avvolgente, con sfumature scure e speziate che il legno rende eleganti senza eccessi. È un rosso che guarda lontano, capace di conquistare chi cerca armonia e profondità.

    Poggiotondo 2022È il cuore pulsante dell’azienda, il vino che più racconta Lorenzo. Sangiovese e canaiolo, maturati in cemento, senza legno. Diretto, schietto, con il frutto nitido e una freschezza che invita alla beva. È un Chianti che non ha bisogno di orpelli, compagno ideale della tavola quotidiana, sincero come la terra da cui nasce.

    Le Rancole 2022È la memoria storica dell’azienda: il primo Chianti imbottigliato in Casentino. Anche qui dominano sangiovese e canaiolo, con un leggero passaggio in legno che dona complessità senza mai coprire il carattere del vino. Più strutturato e profondo del Poggiotondo, ha eleganza, stoffa e un respiro che lo rende capace di sorprendere anche dopo anni.

    Vinsanto del Chianti Collefresco 2016Il gioiello di Poggiotondo, prodotto in poche bottiglie. Da malvasia e trebbiano appassiti e lasciati riposare per anni nei piccoli caratelli, nasce un vino dal colore ambrato e luminoso, che profuma di frutta secca, miele e scorza d’arancia. Dolce ma mai stucchevole, ha una freschezza che bilancia la ricchezza. Un sorso che sembra catturare il tempo e racchiuderlo in un bicchiere. LEGGI TUTTO

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    Mondial des Vins Extrêmes: quando la viticoltura diventa resistenza e bellezza

    C’è un filo che unisce la fatica delle mani sui pendii più ripidi, le radici che si aggrappano alla roccia e le bottiglie che arrivano sulle tavole del mondo. È il filo della viticoltura eroica, quella che nasce in luoghi difficilmente accessibili, tra terrazze strappate alla montagna, vigneti in forte pendenza o appezzamenti isolati su piccole isole. Una viticoltura dove ogni lavorazione richiede sforzi, dedizione e pazienza fuori dal comune, tanto da renderla davvero “eroica”.

    Il Mondial des Vins Extrêmes, giunto quest’anno alla sua 33ª edizione, continua a celebrare e valorizzare proprio questo patrimonio unico. Nelle giornate di degustazione svoltesi a Sarre, in Valle d’Aosta, oltre 1000 vini provenienti da più di 20 Paesi hanno raccontato storie di resistenza, biodiversità e passione.

    “Di anno in anno – ha sottolineato il Presidente del CERVIM Nicola Abbrescia – il Mondial des Vins Extrêmes ci ricorda quanto la viticoltura eroica sia stimolante e affascinante. I vignaioli che prendono parte al concorso affrontano vendemmie sfidanti e territori unici, creando vini di qualità e carattere”.

    Il concorso è organizzato dal CERVIM – Centro di Ricerca, Studi, Salvaguardia, Coordinamento e Valorizzazione per la Viticoltura Montana, con il patrocinio dell’OIV (Organisation Internationale de la Vigne et du Vin) e l’autorizzazione del Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste. Il Mondial des Vins Extrêmes fa parte di VINOFED, la Federazione Internazionale dei Grandi Concorsi Enologici.

    I vini ammessi

    Per selezionare i vini, degustatori esperti, quali tecnici (enologi), esperti degustatori e giornalisti di settore provenienti da tutto il mondo, si riuniscono in commissioni composte da 5 degustatori ciascuna, che tramite un apposito sistema informatico, utilizzato per la prima volta in Italia, proprio al concorso Cervim, valutano i diversi vini, suddivisi in 9 diverse categorie, esprimendo un giudizio, dapprima singolo in base al colore, la limpidezza, l’olfatto e il gusto, che sommati tra loro danno origine al giudizio finale.

    La particolarità del Mondial des Vins Extrêmes dovuta principalmente alla varietà dei vini in degustazione, prodotti per lo più da vitigni autoctoni, caratterizzati da terroir unici che segnano in modo particolare i profumi e i sapori e che rendono il Mondial des Vins Extrêmes unico nel panorama dei concorsi enologici mondiali, richiama l’interesse degli esperti che numerosi ogni anno si candidano per partecipare alle selezioni di luglio.

    Nicola Abbrescia – Presidente del CERVIM

    I vini presentati vengono divisi in 9 categorie:

    1 – vini bianchi tranquilli annate 2024, (con residuo zuccherino fino a 6 g/l);2 – vini bianchi tranquilli annate 2023 e precedenti, (con residuo zuccherino fino a 6 g/l); 3 – vini bianchi tranquilli semidolci (con residuo zuccherino da 6,1 a 45 g/l);4 – vini rossi tranquilli annate 2023 e 2024;5 – vini rossi tranquilli annate 2022 e precedenti;6 – vini rosati tranquilli;7 – vini spumanti;8 – vini dolci (con residuo zuccherino superiore a 45,1 g/l);9 – vini liquorosi.

    Sono ammessi esclusivamente i vini DOC/DOP e IGT/IGP. Non sono ammessi al concorso i vini da tavola (come da regolamento ministeriale).

    I premi

    Al termine delle degustazioni viene stilata la classifica finale, in base al punteggio acquisito vengono ripartiti i premi suddivisi in Gran Medaglia d’Oro, Medaglia d’Oro e Medaglia d’Argento, oltre a ulteriori premi speciali destinati al miglior vino e alla miglior cantina per Paese partecipante, il miglior vino in assoluto, il miglior vino biologico e/o biodinamico, il miglior vino prodotto nelle piccole, il miglior Giovane produttore (al di sotto dei 35 anni), la miglior Donna produttrice, uno destinato alla Regione viticola partecipante con il maggior numero di vini, ed un premio dedicato al miglior vino prodotto da uve franco di piede .

    Premio VINOFED, assegnato in tutti i concorsi enologici aderenti alla Federazione dei Grandi Concorsi Enologici Mondiali, verrà attribuito al miglior vino secco che ha ottenuto il miglior punteggio del concorso. Nel caso in cui il premio VINOFED coincida con il GRAN PREMIO CERVIM, il premio verrà assegnato al secondo vino classificato.

    Il risultato complessivo della 33ª edizione parla chiaro: 77 Grandi Medaglie d’Oro e 221 Medaglie d’Oro assegnate da commissioni internazionali, insieme a 17 Premi Speciali che hanno messo in luce territori e produttori d’eccellenza. Dalla Mosella alle Canarie, dai Pirenei alla Calabria, i vini premiati testimoniano un mosaico di vitigni autoctoni e terroir irripetibili, spesso a rischio di scomparsa.

    Tra le novità, la prima partecipazione dell’Albania, premiata con due Medaglie d’Oro, segno che il concorso continua ad allargare i suoi confini e a essere sempre più globale.

    Accanto ai vini, spazio anche ai distillati con la quinta edizione di Extreme Spirits International Contest, che ha visto primeggiare ancora Tenerife con il Brumas de Ayosa Vermut Blanco 2024, affiancato dal Perù con il Pisco Viña De Los Campos Mosto Verde Italia.

    Ma oltre ai numeri e alle medaglie, il Mondial des Vins Extrêmes è soprattutto un atto di riconoscenza verso chi coltiva l’impossibile. Perché la viticoltura eroica non è soltanto un settore agricolo: è un patrimonio culturale e paesaggistico che ci ricorda quanto vino e territorio siano inseparabili. Non è un caso che questa manifestazione si svolga proprio in Valle d’Aosta, terra di vette e castelli, dove i vigneti salgono arditi verso le montagne e rendono tangibile il senso di una viticoltura che non conosce scorciatoie.

    L’elenco completo dei vincitori è consultabile sul sito ufficiale www.mondialvinsextremes.com LEGGI TUTTO

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    Cantine Settesoli: Sicilia di vento e di comunità

    Arrivare a Menfi in una giornata di scirocco significa essere accolti da un respiro caldo che sembra arrivare da molto lontano, dal cuore del Sahara. È un vento che non si limita a sfiorare la pelle: entra nelle ossa, asciuga l’aria, rallenta i pensieri. Chi vive in Sicilia lo conosce bene: lo scirocco non è solo un fenomeno meteorologico, ma parte integrante del paesaggio, della vita quotidiana, è memoria collettiva.

    Questo vento infuocato ha anche un ruolo decisivo nel disegnare il destino delle vigne. Può accelerare la maturazione dell’uva, portare calore quando serve e, se gestito con attenzione, diventare un alleato prezioso. È in questo scenario che prende forma la storia di Cantine Settesoli, nata a Menfi più di sessant’anni fa per dare voce al lavoro di centinaia di famiglie di viticoltori.

    Come il vento che mescola le correnti, la cooperativa ha imparato a unire energie diverse, trasformando un territorio aspro e generoso in un racconto corale di vini che parlano la lingua viva della Sicilia.

    Una comunità che diventa vino

    Cantine Settesoli è molto più di una cantina: è una comunità che raccoglie 2000 soci viticoltori e coinvolge oltre 5000 famiglie nelle Terre Sicane, in provincia di Agrigento. Fondata nel 1958 dall’intuizione di 68 viticoltori, oggi rappresenta il 7% dell’intera superficie vitata della Sicilia, con 5700 ettari coltivati, di cui più di 1000 in biologico.

    La sua dimensione è imponente – circa 20 milioni di bottiglie prodotte ogni anno, distribuite in oltre 45 Paesi – ma non ha mai perso il legame con la terra. È grazie a questo radicamento che Settesoli riesce a custodire 35 cultivar diverse, tra vitigni autoctoni come grillo, grecanico e nero d’Avola, e varietà internazionali come chardonnay, merlot e syrah.

    Una storia pionieristica

    Sin dalle origini Settesoli ha fatto scelte coraggiose. Dopo la prima vendemmia nel 1965, negli anni Settanta è stata tra le prime in Sicilia a investire nell’imbottigliamento e nell’export. Negli anni Ottanta ha sperimentato vitigni internazionali, aprendo la strada allo chardonnay. Negli anni Novanta ha ampliato il proprio raggio d’azione con nuove acquisizioni e due marchi destinati a mercati differenti: Mandrarossa, per il canale Horeca, e Inycon, dedicato alla grande distribuzione internazionale.

    Innovazione e sostenibilità

    La spinta all’innovazione ha sempre camminato accanto a quella per la sostenibilità. Nel 2003 Settesoli è stata la prima azienda vinicola in Italia a introdurre la tracciabilità completa della filiera. Oggi conta su 11 impianti fotovoltaici che coprono il 23% del fabbisogno energetico, progetti di riciclo e materiali a basso impatto ambientale. Ha ottenuto certificazioni importanti – Vegan, VIVA e SOStain Sicilia – che ne fanno un modello di viticoltura responsabile.

    Il legame con la comunità resta il cuore pulsante: il 70% delle famiglie del territorio partecipa in qualche forma al progetto, e il valore generato diventa motore di sviluppo, contrastando lo spopolamento e salvaguardando il paesaggio.

    Mandrarossa: nuove rotte del vino siciliano

    È in questo contesto che nasce Mandrarossa, il brand creato nel 1999 come volto più contemporaneo della cooperativa. Dedicato alla ristorazione, alle enoteche e ai wine bar, Mandrarossa è il frutto di oltre vent’anni di ricerca per mettere in dialogo varietà e terroir. Il risultato è una Sicilia che sfugge ai cliché: autentica, dinamica e capace di sorprendere.

    Dal debutto a Vinitaly nel 2000 con sette etichette alla nascita di Cartagho nel 2004, fino ai Vini di Contrada del 2019 e all’approdo sull’Etna e a Pantelleria nel 2020, Mandrarossa ha costruito un percorso di continua crescita e sperimentazione.

    Oggi i tre territori d’elezione – Menfi, Etna e Pantelleria – custodiscono anime diverse della Sicilia. Il cosiddetto Menfishire è un mosaico di colline che degradano verso il mare, ricco di microclimi e biodiversità. Le pendici dell’Etna, con i loro suoli vulcanici, regalano vini vibranti e minerali. Pantelleria, isola sospesa nel vento, offre lo zibibbo per il celebre Passito di Pantelleria DOC.

    Tra sperimentazione e identità

    Mandrarossa si distingue per il lavoro pionieristico sui suoli: cinque tipologie principali, studi sui micro-terroir e progetti di microvinificazione che hanno portato alla selezione di vigneti d’eccellenza e alla nascita di etichette uniche nel panorama siciliano. È una ricerca che non smette mai di esplorare nuove strade, mantenendo saldo il legame con il territorio.

    La cantina e l’esperienza

    Il legame con la sostenibilità trova la sua massima espressione nella Mandrarossa Winery, inaugurata nel 2021 a Menfi. Una cantina ecosostenibile incastonata nel paesaggio: struttura ipogea, tetto giardino, materiali naturali e spazi progettati per fondersi con la campagna e con il mare.

    Qui l’enoturismo diventa esperienza immersiva. I visitatori possono scegliere tra wine tour tematici, degustazioni guidate e percorsi dedicati alle diverse linee, fino alla scoperta del vigneto didattico e della bottaia. Un luogo che racconta la Sicilia contemporanea attraverso il vino, la natura e l’ospitalità.

    La gamma Mandrarossa: cinque anime di Sicilia

    Mandrarossa racconta la Sicilia con una gamma di vini articolata in cinque linee, ciascuna con un carattere distinto ma unite dallo stesso spirito di ricerca e autenticità.

    CartaghoIl Nero d’Avola che è diventato il simbolo del brand. Nasce da una selezione delle migliori uve e si presenta come un rosso intenso, avvolgente, con equilibrio e rotondità. È la bottiglia che più di tutte incarna la forza e la tradizione enologica siciliana.

    Storie RitrovateUna collezione che porta il gusto oltre Menfi, là dove la Sicilia si moltiplica in identità diverse. Ci sono i Vini di Contrada, frutto di uno studio sui suoli calcarei che ha rivelato micro-terroir unici: il Grillo Bertolino Soprano e il Nero d’Avola Terre del Sommacco ne sono l’espressione più alta. Ci sono i vini dell’Etna, Sentiero delle Gerle Bianco e Rosso, che raccontano l’energia del vulcano con i profumi del Carricante e la forza del Nerello Mascalese. E c’è Serapis, il Passito di Pantelleria, dolce e luminoso come l’isola del vento da cui proviene. Nancy Rossit firma etichette che non si limitano a vestire il vino: lo accompagnano in un viaggio poetico, fatto di colori e suggestioni.

    Gli InnovativiLa linea che guarda avanti e osa, reinterpretando vitigni locali e internazionali con spirito creativo. Dal Petit Verdot in purezza del Timperosse al Sauvignon Blanc salmastro di Urra di Mare, dal Vermentino biologico di Larcéra fino allo spumante Delquanta, ottenuto da uve Chenin Blanc: sono vini che sorprendono per freschezza, energia e capacità di mostrare la Sicilia in forme nuove.

    I VarietaliQui la semplicità incontra l’autenticità. Sono vini in purezza che esprimono al meglio i vitigni, sia autoctoni che internazionali. Dal Nero d’Avola al Frappato, dal Grillo al Grecanico, fino a Chardonnay, Viognier, Fiano e Syrah: etichette immediate, fresche, pensate per raccontare la ricchezza e la varietà del patrimonio viticolo siciliano senza filtri.

    Selinunte

    CalamossaUna linea che evoca la vitalità del mare. Bianco e Rosato frizzante, leggeri e gioiosi, che prendono il nome da un’insenatura di Menfi. Freschezza e spuma sottile li rendono il volto più spensierato e solare della collezione.

    Cinque percorsi diversi, un’unica anima: quella di una Sicilia capace di reinventarsi senza perdere il legame con le proprie radici.

    E come scriveva Salvatore Quasimodo in Vento a Tindari:

    «Salgo vertici aerei precipizi, assorto al vento dei pini, e la brigata che lieve m’accompagnas’allontana nell’aria, onda di suoni e amore, e tu mi prendi da cui male mi trassi e paure d’ombre e di silenzi, rifugi di dolcezze un tempo assidue e morte d’anima.»

    Un’immagine che restituisce tutta la forza del vento, della memoria e dell’anima di questa terra, la stessa che Cantine Settesoli continua a trasformare in racconto collettivo e in vino. LEGGI TUTTO

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    Tommasi rafforza le radici in Puglia: nuove acquisizioni e un progetto mediterraneo

    La famiglia Tommasi continua a scrivere nuove pagine della propria storia enologica, questa volta in Puglia. Con l’ingresso di Tenuta Eméra a Lizzano e della Cantina Moros a Guagnano, il progetto di Masseria Surani si consolida e guarda al futuro con un respiro sempre più ampio.

    L’operazione segna anche un passaggio generazionale importante: Claudio Quarta, figura di rilievo del vino pugliese contemporaneo, annuncia il proprio ritiro, lasciando il testimone alla famiglia Tommasi. Ma il filo non si spezza: la figlia Alessandra Quarta continuerà a collaborare per garantire continuità e sviluppo al percorso avviato più di quindici anni fa.

    Claudio e Alessandra Quarta

    Quella di Claudio Quarta è una vicenda che somiglia a un ritorno romantico. Nel 2005, dopo una carriera da ricercatore e imprenditore farmaceutico negli Stati Uniti, scelse di tornare in Salento, la terra della sua infanzia, per inseguire la passione del vino. Con lui, dal 2012, Alessandra: formazione internazionale e la volontà di trasformare la passione in progetto, unendo ricerca e innovazione a tradizione e sostenibilità.

    Masseria Surani_Cantina Moros

    Per la famiglia Tommasi, già presente in Puglia dal 2012 con Masseria Surani a Manduria, l’acquisizione rappresenta un tassello strategico: «È una grande opportunità – sottolinea Giancarlo Tommasi, enologo e direttore tecnico – che ci permette di rafforzare la nostra presenza e di integrare nuove cantine di vinificazione e imbottigliamento». Il gruppo raggiunge così un patrimonio di oltre 800 ettari vitati in tutta Italia, confermando la propria vocazione ad abbracciare territori diversi e identitari.

    Masseria Surani_Tenuta Espera

    Il portafoglio pugliese di Tommasi Family Estates si articola ora su tre poli:

    Tenuta Espéra a Manduria, cuore originario del progetto, con etichette dedicate alla ristorazione e legate al Primitivo;

    Tenuta Eméra a Lizzano, dove si coltivano Primitivo Doc, Fiano e Negroamaro Rosé;

    Cantina Moros a Guagnano, custode del Salice Salentino Doc Riserva.

    Per Alessandra Quarta, la scelta di affiancare la famiglia Tommasi nasce da una visione pragmatica e al tempo stesso affettiva: «Cercavo un approdo solido per crescere sui mercati globali – racconta – e sono certa che insieme potremo far fiorire il progetto avviato con papà, generando nuove opportunità per il territorio».

    Tommasi IV generation

    Con questa mossa, Tommasi completa il proprio mosaico mediterraneo: Salento in Puglia, Vulture in Basilicata con Paternoster, Etna in Sicilia con Ammura. Una geografia che racconta la ricchezza dei terroir del Sud e la loro capacità di parlare al mondo, mantenendo un legame stretto con la tradizione.

    In questa visione, la Puglia non è solo un luogo di produzione, ma un territorio da ascoltare e interpretare. Un laboratorio dove il vino diventa racconto, memoria e al tempo stesso progetto, capace di restituire l’identità locale in una prospettiva internazionale. LEGGI TUTTO

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    Sicilia nel bicchiere: la via di Salvatore Tamburello

    Ci sono bottiglie che non si dimenticano. Non accade sovente, ma quando succede ti ritrovi a fermarti, a riassaggiare, a chiederti cosa ci sia dietro quel sorso. Con il 797 N, Catarratto biologico non filtrato, l’incontro sorprende come una parola perfetta detta al momento giusto, capace di entrarti dentro come una lama: la Sicilia, in quel bicchiere, non era un’idea, ma una presenza viva. “797” è la particella catastale del vigneto, “N” la linea di vini senza filtrazione, chiarifica o stabilizzazione. Il resto lo raccontano la terra, l’uva, l’aria di Poggioreale.

    A duecento metri d’altitudine, nel cuore agricolo della provincia di Trapani, Tamburello coltiva ventiquattro ettari, tredici dei quali a vite — nero d’Avola, grillo, catarratto e trebbiano — accanto agli ulivi di Nocellara del Belìce. È un’azienda di famiglia, passata di mano per cinque generazioni, ma è nel 2006, alla morte del padre, che Salvatore ne assume la guida. Fino al 2014 le uve, di qualità già riconosciuta, finivano altrove; poi la saggia decisione di vinificarle in proprio.

    Dal 2010 la conduzione è biologica, con il marchio Qualità Sicura Sicilia. La linea “N” nasce da una constatazione semplice e radicale: i vini, prima delle filtrazioni e delle chiarifiche, in vasca hanno un respiro più pieno, una fragranza intatta. Perché allora non proporli così com’erano, integri? Da qui i “non filtrati, non chiarificati, non stabilizzati”, che per Salvatore non sono moda ma coerenza. Non si definisce “produttore di vini naturali” finché non esisterà un disciplinare chiaro, certificato, capace di distinguere la serietà dal marketing: per lui, almeno il biologico è condizione minima.

    Visitare la cantina, aperta nell’ottobre 2024, significa toccare con mano la misura e la pazienza che animano i suoi vini: luce, ordine, legni scelti con misura (dieci tonneau da 500 litri, metà in rovere francese, metà in americano), niente eccessi tecnologici, tanta attenzione ai tempi.

    Si comincia ad assaggiare. Il Metodo Classico 30 mesi 2019 ha la cremosità e la gentilezza di chi sussurra un segreto: lievito, gelsomino, una bolla morbida, un’acidità citrina che non punge, eppure resta. Poi il 756 N Rosato, ancestrale di merlot: albicocca, pesca, un sorso pieno, allegro, come una chiacchiera a pranzo in una terrazza sul mare.

    Il 204 N Grillo 2024 è un lampo di agrume, teso ma dolce di cedro; il 797 N Catarratto 2023 — quello dell’incontro folgorante — è tutto freschezza e frutta croccante, con un fondo di polpa gialla che resiste al ricordo.

    Il Trebbiano N 2023 è lieve, elegante, ma conserva quella succosità che ti obbliga al secondo bicchiere. Il 204 Grillo Bio ha il passo del viaggiatore di costa: minerale, salmastro, asciutto.

    Poi il Primo Blend 2023: Trebbiano del 1986 e Catarratto del 2011. È un vino giallo, tutto giallo: ginestra, limone, luce di pomeriggio. Fresco, minerale, ma con un corpo che riempie la bocca come un pane caldo. E infine il 306 N Nero d’Avola 2024, fermentato in cemento: mora croccante, frutti rossi, tannini giovani che chiedono tempo, come certe promesse d’amicizia che maturano piano.

    In ogni bottiglia c’è la misura di un uomo che lavora per far parlare la terra. Nei suoi vini, Poggioreale non è un luogo sulla mappa: è un profumo, una luce, un sapore che resta. LEGGI TUTTO

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    Cirò DOCG: la Calabria del vino scrive una pagina di storia

    La Calabria del vino scrive una pagina di storia. Con l’ufficializzazione della Denominazione di Origine Controllata e Garantita per il Cirò Classico – sancita dal Regolamento UE n. 2025/1518 – il rosso simbolo della regione entra nell’élite dell’enologia italiana. Una conquista che profuma di orgoglio, determinazione e consapevolezza: quella di un territorio che ha scelto di credere in se stesso, riscoprendo le proprie radici e investendo nel futuro.

    Il riconoscimento della DOCG rappresenta molto più di una certificazione: è l’affermazione di un’identità. Il Cirò Classico, tra le denominazioni più antiche d’Italia, ottiene così il massimo sigillo qualitativo, frutto di un lungo e corale percorso che ha coinvolto produttori, istituzioni e comunità locali. Un lavoro collettivo che, come sottolinea Carlo Siciliani, presidente del Consorzio di Tutela Cirò e Melissa, «non è un punto d’arrivo, ma l’inizio di una nuova fase».

    Una fase fatta di regole più stringenti e aderenti al carattere autentico del vino: almeno il 90% di uve Gaglioppo, esclusione delle varietà internazionali, vinificazione e imbottigliamento obbligatori in zona, invecchiamento minimo di 36 mesi con affinamento in legno e allevamenti ad alberello o spalliera. Scelte che parlano di rigore e rispetto, di paesaggio e cultura.

    Ed è proprio questo paesaggio – solare, aspro e accogliente – il grande protagonista della 18ª edizione del Cirò Wine Festival, in programma dal 7 al 10 agosto. Una festa del vino che quest’anno assume un significato ancora più profondo: è il momento di condividere con il pubblico un traguardo che appartiene a tutta la Calabria.

    Il programma degli eventi “OFF” accompagna il festival principale con una serie di esperienze diffuse, pensate per far dialogare vino, territorio, cultura e comunità. Si comincia il 7 agosto con l’elegante esperienza proposta da Librandi: partenza dalla cantina, visita alla tenuta di Rosaneti, cena sotto le stelle curata da Lagust e osservazione astronomica in compagnia del Circolo Astrofili “Luigi Lilio”. Sempre lo stesso giorno, Brigante Vigneti & Cantina propone un percorso in e-bike tra natura e memoria: dal mare al borgo di Cirò, tra il centro storico, il museo Lilio e degustazioni all’Enoteca Regionale.

    Alle 18:00, nella raffinata cornice del Palazzo dei Musei, il giornalista Matteo Gallello guiderà una degustazione tematica sul Cirò Rosato, indagando corrispondenze, evoluzioni e dignità stilistica di questo vino spesso sottovalutato.

    L’8 agosto prosegue il connubio tra bici, vino e scoperta del territorio con Mimmo Vinci e Verzino E-Bike Adventure, mentre Tenuta Renda propone “Calendario Divino”, un percorso sensoriale tra vini selezionati e sapori locali. In serata, spazio al Night Party firmato Cantine Greco, con banchi d’assaggio, etichette iconiche, installazioni artistiche e la presentazione del Gin Hera, in un’atmosfera di festa e creatività.

    Sabato 9 agosto si parte alle 9:30 da Umbriatico per il Fezzigna Wine Trekking: un’escursione tra i paesaggi fluviali del Lipuda e una tappa in cantina con degustazioni all’arrivo. In contemporanea, nuova replica dell’esperienza “Calendario Divino” da Tenuta Renda.

    Il gran finale è previsto per il 10 agosto, sotto il cielo della festa della Madonna di Mare, tra banchi d’assaggio, musica dal vivo e cucina territoriale. Un momento collettivo di gioia, identità e condivisione.

    In un’epoca in cui il vino rischia di diventare un puro oggetto di mercato o marketing, il Cirò DOCG si presenta come un baluardo culturale. Un vino che parla una lingua antica, ma sa stare nel presente con consapevolezza e visione. Il Cirò Wine Festival, con il suo dialogo tra storia, esperienza e innovazione, ne è la celebrazione più autentica.

    ASPETTANDO LA WINE NIGHTAd arricchire il carnet degli eventi anche le tre serate in altrettante cantine del territorio che segneranno il cammino di avvicinamento alla Wine Night del 10 agosto a Madonna di Mare. Nella cornice suggestiva dei Mercati Saraceni si potranno degustare i vini di ‘A Vita, Antichi vigneti Sculco, Baroni Capoano, Brigante vigneti & cantina, Cantina Campana, Cantine Arcuri, Cantine Bruni, Cantine De Mare, Cantine Greco, Cantine Malena, Cantine Strangi, Caparra & Siciliani, Cerminara, Enotria, Feudo Liguori, Fezzigna, Fratelli dell’Aquila, Giuseppe Pipita vini, Ippolito 1845, L’Arcigilione di Cataldo Calabretta, La Pizzuta del Principe, Librandi, Maddalona del Casato, Mimmo Vinci, Rocco Pirito, Romano & Adamo, Salvatore Caparra vini, Scala vigneti e cantina, Senatore vini, Sergio Arcuri, Tenuta del Conte, Tenuta Renda, Tenuta Santoro, Vigneti Ferraro, Vigneti Vumbaca, Zitocantine protagoniste dell’edizione 2025 del Cirò Wine Festival.  Prima di arrivare al grande evento finale per celebrare il riconoscimento della DOCG tre serate in altrettante cantine del territorio: il 7 agosto a partire dalle ore 20:00 sarà Borgo Saverona ad accogliere il primo degli appuntamenti “Aspettando la Wine Night” con banchi d’assaggio delle aziende del consorzio Cirò e Melissa Doc, il food e l’accompagnamento di musica popolare e dj set. Stesso format per l’8 agosto sempre a partire dalle ore 20:00 presso la cantina Senatore e il 9 agosto da Baroni Capoano arricchito dal talk “Nuove sfide per il Cirò”. 

    LE DEGUSTAZIONIEdizione ricca di esperienze e assaggi, incontri e confronti sul Cirò e la sua produzione vitivinicola che fa registrare due appuntamenti tecnici di degustazione ospitati nella sala consiliare del palazzo di città di Cirò. Il 9 agosto a partire dalle ore 16:30 sarà prima Serena Specchi, Decanter Wine Academy, a condurre la masterclass “Il Cirò tra innovazione e tradizione” e poi Rocco Catalano, giornalista enogastronomico, che alle 18:15 approfondirà l’areale cirotano partendo dai “Vitigni autoctoni e biodiversità calabrese”. LEGGI TUTTO