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    Cirò DOCG: la Calabria del vino scrive una pagina di storia

    La Calabria del vino scrive una pagina di storia. Con l’ufficializzazione della Denominazione di Origine Controllata e Garantita per il Cirò Classico – sancita dal Regolamento UE n. 2025/1518 – il rosso simbolo della regione entra nell’élite dell’enologia italiana. Una conquista che profuma di orgoglio, determinazione e consapevolezza: quella di un territorio che ha scelto di credere in se stesso, riscoprendo le proprie radici e investendo nel futuro.

    Il riconoscimento della DOCG rappresenta molto più di una certificazione: è l’affermazione di un’identità. Il Cirò Classico, tra le denominazioni più antiche d’Italia, ottiene così il massimo sigillo qualitativo, frutto di un lungo e corale percorso che ha coinvolto produttori, istituzioni e comunità locali. Un lavoro collettivo che, come sottolinea Carlo Siciliani, presidente del Consorzio di Tutela Cirò e Melissa, «non è un punto d’arrivo, ma l’inizio di una nuova fase».

    Una fase fatta di regole più stringenti e aderenti al carattere autentico del vino: almeno il 90% di uve Gaglioppo, esclusione delle varietà internazionali, vinificazione e imbottigliamento obbligatori in zona, invecchiamento minimo di 36 mesi con affinamento in legno e allevamenti ad alberello o spalliera. Scelte che parlano di rigore e rispetto, di paesaggio e cultura.

    Ed è proprio questo paesaggio – solare, aspro e accogliente – il grande protagonista della 18ª edizione del Cirò Wine Festival, in programma dal 7 al 10 agosto. Una festa del vino che quest’anno assume un significato ancora più profondo: è il momento di condividere con il pubblico un traguardo che appartiene a tutta la Calabria.

    Il programma degli eventi “OFF” accompagna il festival principale con una serie di esperienze diffuse, pensate per far dialogare vino, territorio, cultura e comunità. Si comincia il 7 agosto con l’elegante esperienza proposta da Librandi: partenza dalla cantina, visita alla tenuta di Rosaneti, cena sotto le stelle curata da Lagust e osservazione astronomica in compagnia del Circolo Astrofili “Luigi Lilio”. Sempre lo stesso giorno, Brigante Vigneti & Cantina propone un percorso in e-bike tra natura e memoria: dal mare al borgo di Cirò, tra il centro storico, il museo Lilio e degustazioni all’Enoteca Regionale.

    Alle 18:00, nella raffinata cornice del Palazzo dei Musei, il giornalista Matteo Gallello guiderà una degustazione tematica sul Cirò Rosato, indagando corrispondenze, evoluzioni e dignità stilistica di questo vino spesso sottovalutato.

    L’8 agosto prosegue il connubio tra bici, vino e scoperta del territorio con Mimmo Vinci e Verzino E-Bike Adventure, mentre Tenuta Renda propone “Calendario Divino”, un percorso sensoriale tra vini selezionati e sapori locali. In serata, spazio al Night Party firmato Cantine Greco, con banchi d’assaggio, etichette iconiche, installazioni artistiche e la presentazione del Gin Hera, in un’atmosfera di festa e creatività.

    Sabato 9 agosto si parte alle 9:30 da Umbriatico per il Fezzigna Wine Trekking: un’escursione tra i paesaggi fluviali del Lipuda e una tappa in cantina con degustazioni all’arrivo. In contemporanea, nuova replica dell’esperienza “Calendario Divino” da Tenuta Renda.

    Il gran finale è previsto per il 10 agosto, sotto il cielo della festa della Madonna di Mare, tra banchi d’assaggio, musica dal vivo e cucina territoriale. Un momento collettivo di gioia, identità e condivisione.

    In un’epoca in cui il vino rischia di diventare un puro oggetto di mercato o marketing, il Cirò DOCG si presenta come un baluardo culturale. Un vino che parla una lingua antica, ma sa stare nel presente con consapevolezza e visione. Il Cirò Wine Festival, con il suo dialogo tra storia, esperienza e innovazione, ne è la celebrazione più autentica.

    ASPETTANDO LA WINE NIGHTAd arricchire il carnet degli eventi anche le tre serate in altrettante cantine del territorio che segneranno il cammino di avvicinamento alla Wine Night del 10 agosto a Madonna di Mare. Nella cornice suggestiva dei Mercati Saraceni si potranno degustare i vini di ‘A Vita, Antichi vigneti Sculco, Baroni Capoano, Brigante vigneti & cantina, Cantina Campana, Cantine Arcuri, Cantine Bruni, Cantine De Mare, Cantine Greco, Cantine Malena, Cantine Strangi, Caparra & Siciliani, Cerminara, Enotria, Feudo Liguori, Fezzigna, Fratelli dell’Aquila, Giuseppe Pipita vini, Ippolito 1845, L’Arcigilione di Cataldo Calabretta, La Pizzuta del Principe, Librandi, Maddalona del Casato, Mimmo Vinci, Rocco Pirito, Romano & Adamo, Salvatore Caparra vini, Scala vigneti e cantina, Senatore vini, Sergio Arcuri, Tenuta del Conte, Tenuta Renda, Tenuta Santoro, Vigneti Ferraro, Vigneti Vumbaca, Zitocantine protagoniste dell’edizione 2025 del Cirò Wine Festival.  Prima di arrivare al grande evento finale per celebrare il riconoscimento della DOCG tre serate in altrettante cantine del territorio: il 7 agosto a partire dalle ore 20:00 sarà Borgo Saverona ad accogliere il primo degli appuntamenti “Aspettando la Wine Night” con banchi d’assaggio delle aziende del consorzio Cirò e Melissa Doc, il food e l’accompagnamento di musica popolare e dj set. Stesso format per l’8 agosto sempre a partire dalle ore 20:00 presso la cantina Senatore e il 9 agosto da Baroni Capoano arricchito dal talk “Nuove sfide per il Cirò”. 

    LE DEGUSTAZIONIEdizione ricca di esperienze e assaggi, incontri e confronti sul Cirò e la sua produzione vitivinicola che fa registrare due appuntamenti tecnici di degustazione ospitati nella sala consiliare del palazzo di città di Cirò. Il 9 agosto a partire dalle ore 16:30 sarà prima Serena Specchi, Decanter Wine Academy, a condurre la masterclass “Il Cirò tra innovazione e tradizione” e poi Rocco Catalano, giornalista enogastronomico, che alle 18:15 approfondirà l’areale cirotano partendo dai “Vitigni autoctoni e biodiversità calabrese”. LEGGI TUTTO

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    Il vino secondo Francesco Guccione: etica, terra, tempo

    Nel mondo del vino così detto naturale, troppo spesso diviso tra dogmi e approssimazioni, Francesco Guccione incarna una via solida e coerente, fatta di rigore, ascolto, tecnica e intuizione, tempo e misura. I suoi vini, biodinamici sono tra i più puliti, espressivi e vitali che si possano trovare in Italia. E proprio per questo, tra i più “naturali”, nel senso pieno del termine.

    In un tempo in cui la parola naturale ha perso quasi ogni significato, diluita tra marketing e ideologia, Guccione ha scelto un’altra via: lasciar parlare il vino, e farlo bene. Dietro ogni bottiglia c’è una vigna condotta con attenzione artigianale e sensibilità agricola; c’è la capacità di attendere il momento giusto, anche quando questo vuol dire rimandare l’uscita di un vino di anni; c’è un pensiero profondo e mai gridato su cosa voglia dire coltivare, trasformare e infine condividere un pezzo di terra.

    Un’altra Sicilia, in Contrada Cerasa

    Siamo a Cerasa, nel cuore dell’entroterra palermitano, tra le colline che separano la valle dello Jato da quella del Belìce. Qui, il bisnonno di Francesco, durante la Prima guerra mondiale, decise di piantare vigna per sottrarsi al mercato nero del grano. Da allora, la storia agricola della famiglia Guccione ha attraversato generazioni, terremoti, fratture e rinascite. Fino a quando, nel 2005, Francesco decide di iniziare una nuova fase: vinificare in proprio, con il proprio nome, le uve che da sempre crescevano in quelle terre.

    La svolta è anche spirituale, oltre che tecnica. «In biodinamica – dice – l’agricoltore deve avere un approccio che possiamo definire artistico, cioè la capacità di sentire quello che è veramente necessario per la propria vigna». È una frase che racconta molto del suo metodo: non un’adesione dogmatica, ma un dialogo costante con la natura, con la memoria, con il ritmo del tempo. A Cerasa non si rincorre la moda, non si forzano le annate: si attende. Si studia. Si riflette. E si produce vino solo quando ha senso farlo.

    Pulizia, profondità, consapevolezza

    Nel mondo del vino cosiddetto naturale, troppo spesso si tollerano scorrettezze e difetti in nome di una supposta autenticità. Ma Francesco Guccione dimostra con ogni etichetta – che sia Trebbiano, Catarratto, Perricone o Nerello – che si può fare vino pulito, elegante, espressivo, e al tempo stesso pienamente agricolo, pienamente vivo. Un vino che non ha bisogno di travestirsi da altro, perché è già se stesso.

    La sua è una lezione implicita ma fondamentale: fare vino naturale non significa lasciare fare alla natura, ma lavorare il doppio per metterla nelle condizioni di esprimersi senza forzature. Significa conoscere a fondo ogni parcella, ogni fermentazione, ogni attesa. Significa – e questo è il punto – partire sempre dalla qualità dell’uva, non dalla narrativa che la circonda. Perché non basta dire “biodinamico” per garantire bontà o salubrità. Serve rigore, serve cultura, serve un’etica agricola che sia anche etica umana.

    La ferita e la rinascita

    Come spesso accade alle storie autentiche, anche quella di Francesco ha conosciuto una frattura. Dopo aver costruito con anni di lavoro la prima cantina, l’identità aziendale e la reputazione dei vini di Cerasa, si è ritrovato fuori da ciò che aveva fondato. «Come in un brutto sogno – ha scritto – ti trovi la porta della cantina chiusa e qualcuno che ti dice: “tu sei fuori”». È una ferita profonda, che avrebbe potuto chiudere ogni strada. E invece ha dato inizio a un nuovo percorso.

    Francesco Guccione ha ricominciato. Senza clamore, senza recriminazioni, ma con la forza interiore di chi sa che la coerenza, alla lunga, ha più valore di ogni marchio. Ha ricostruito la sua identità viticola pezzo dopo pezzo, ha continuato a portare in giro per il mondo i suoi vini, a parlare con chiarezza, a far degustare senza parole superflue. Ha mostrato, con l’esempio, cosa può diventare il vino naturale quando è fatto con cultura, sensibilità e precisione.

    Un punto di riferimento, non un modello

    Francesco Guccione non ama essere messo su un piedistallo, ma chi oggi parla di vini naturali, e soprattutto chi li fa, dovrebbe guardare al suo lavoro come a una bussola possibile. Non per copiarlo, ma per capire che esiste una via sobria, riflessiva, profondamente etica di fare vino. Una via in cui il terroir non è un concetto astratto, ma un equilibrio tra ciò che la terra offre e ciò che l’uomo sa cogliere senza stravolgere.

    Nel panorama enologico attuale, dove le barriere tra naturale e convenzionale andrebbero finalmente superate a favore della qualità, della verità e del rispetto per il consumatore, Francesco Guccione è una figura cardine. Uno che ha scelto il silenzio del lavoro alla retorica dei manifesti. E che, proprio per questo, produce vini che parlano con una voce chiara, netta, inconfondibile.

    I vini di Francesco Guccione

    Trebbiano 2020 Terre Siciliane igtUn bianco che sa di storia e freschezza. Niente legno, solo acciaio, per esprimere agrumi, frutta bianca, delicate note di miele. In bocca è teso, vibrante e sorprendentemente sapido.

    Catarratto 2022 Terre Siciliane igtFine, luminoso, essenziale. Un Catarratto dallo stile gentile ma deciso, con profumi di frutta gialla matura, erbe aromatiche e un finale fresco e salino.

    Bianco di Cerasa 2021 Terre Siciliane igt L’unione riuscita tra Trebbiano e Catarratto. Frutta, fiori, sale e miele in un sorso denso ma agile. Un bianco elegante, profondo e irresistibile. Da bere senza accorgersi del tempo che passa.

    Machado 2020 rosato Terre Siciliane igt (Trebbiano, Catarratto, Perricone e Nerello Mascalese in quantità variabili).Nato da uve bianche e nere, è fresco come un bianco ma con il cuore da rosso. Profuma di fragoline e chinotto, il sorso è raffinato, un vino rosa affascinante e delicato.

    Rosso di Cerasa 2020 Terre Siciliane igtRealizzato solo con la migliore selezione di Nerello Mascalese e Perricone e prodotto solo in determinate annate. Nerello Mascalese e Perricone in equilibrio perfetto. Profuma di ciliegie e fiori. Sorso avvolgente per un vino di rara eleganza.

    Nerello Mascalese 2021 Terre Siciliane igtUna versione elegante e gentile del celebre vitigno etneo. Frutti di bosco, spezie leggere e un tocco di cuoio. Il sorso è fresco, scorrevole, pieno di grazia.

    P16 (Perricone 2016)Otto anni di attesa per un vino che parla con la stessa lingua dei grandi rossi del mondo. Ciliegia in confettura, agrumi, cuoio, spezie e frutti di bosco. Rotondo, complesso, con tannini morbidi e lunghissima persistenza. Un Perricone da collezione. LEGGI TUTTO

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    Marilena Barbera: il vino come scelta, come vita

    Seguo Marilena Barbera da quando ho iniziato a muovere i primi passi nel mondo del vino. Era il 2010 e i social erano ancora un luogo di scambio fertile, non una vetrina autoreferenziale. Su Facebook si trovavano pensieri liberi, profondi, a volte taglienti. E quelli di Marilena mi arrivavano sempre dritti. Leggevo ogni suo post, ogni commento — specialmente su Intravino — come si leggono le parole di chi sa osservare, di chi non si tira indietro, di chi ha qualcosa da dire. Ricordo di averle scritto un paio di volte, semplicemente per ringraziarla.

    Eppure, non ci eravamo mai incontrati. Ci avevamo quasi provato a Vinitaly nel 2017, ma poi un’intervista per la Rai la tenne lontana dal banco d’assaggio e io lasciai perdere. A volte le cose accadono quando devono accadere. E succede, con alcune persone, che si crea una connessione invisibile e immediata, ancora prima di scambiarsi un sorriso. Un po’ come succede con certi vini: sai che sono tuoi, anche se non li hai ancora bevuti.

    A giugno di quest’anno, grazie alla manifestazione Sicily on Wine, quell’incontro è finalmente avvenuto. E tutto si è confermato: la voce, i gesti, il vino. Ogni dettaglio parlava di lei. E parlava della Sicilia, di una Sicilia autentica, ruvida e luminosa, fatta di mare, vento e parole scelte con cura.

    Marilena è tornata a Menfi dopo anni altrove. La chiamava la vigna piantata da suo nonno e coltivata da suo padre. Un luogo, Belicello, che non è solo un’azienda agricola, ma un crocevia emotivo e simbolico. Quando racconta il suo percorso non lo fa mai con toni epici: non c’è retorica nel suo modo di stare al mondo. Solo una consapevolezza profonda e, forse, faticosa. Una scelta che ha il sapore delle cose definitive: fare il vino come atto politico ed etico, come gesto di restituzione verso la terra.

    “Il vino è uno dei migliori ambasciatori dell’Italia nel mondo” — dice. E in effetti lei, che sognava di diventare diplomatica, è riuscita a esserlo a modo suo. Una diplomazia del cuore e della testa, che passa dai bicchieri, dai racconti, dalla coerenza.

    I vini di Marilena non vogliono piacere a tutti, ma parlano chiaro. Sono figli di una viticoltura biodinamica e di una vinificazione naturale. Niente forzature, niente scorciatoie. Soltanto uva, territorio, tempo. E un approccio rispettoso, artigianale, capace di ascoltare ogni annata per ciò che è.

    Ogni vino è un racconto che prende forma dal paesaggio, dalle mani e da una visione profonda. C’è la freschezza luminosa del Tivitti 2024, un’Inzolia che sa di mare e agrumi e scorre lieve come un pensiero pulito. La Bambina 2020, rosato da Nero d’Avola (60%) e Frappato (40%), è un omaggio alle donne, alla loro forza gentile, alla capacità di scegliere, lottare e trasformare: un vino delicato ma deciso, capace di lasciare il segno. Arèmi 2023 è un Catarratto che porta con sé luce e memoria e racconta il tempo lento della terra. Ammàno 2023 è un gesto, prima ancora che un vino: uno Zibibbo salato e floreale, fatto solo con l’uva e con l’intenzione. Lu Còri 2023 è un Nero d’Avola generoso e succoso, che sa tenere insieme sole e vento, frutto e sale. Ciàtu 2021 (alito, respiro), da uve Alicante, ha l’anima calda e profonda: il respiro della vita che si fa vino. E poi c’è Coda della Foce 2016, un Nero d’Avola che arriva da lontano, si è trasformato nel tempo e oggi si presenta elegante e potente, con una voce tutta sua, capace di restare impressa.

    Non si nasconde, Marilena, dietro le etichette del “naturale” o del “biodinamico”. Anzi, le decostruisce con lucidità: “Per me è un problema soggettivo di gusto, e oggettivo di consapevolezza”. Una frase che potrebbe sintetizzare tutto il suo approccio.

    C’è nei suoi racconti una costante tensione verso la verità: quella del vino, della terra, delle persone. Lo si avverte nel modo in cui parla di sé, di Menfi, del Belìce, dei piccoli produttori che resistono, nonostante tutto. “Sostenere il lavoro dei piccoli agricoltori è una scelta politica ed etica”, dice Marilena, non è solo vino: è una visione.

    L’ho riconosciuta in un bicchiere, quella visione. In una domenica infuocata  di giugno, nel silenzio severo e accogliente del Monastero seicentesco dei Padri Olivetani, a Chiusa Sclafani. Vini di grande personalità, ogni bottiglia è un gesto di cura, un atto di appartenenza. Una Sicilia che non si concede facilmente, ma che ti resta dentro.

    Ci sono vignaioli che si limitano a produrre buoni vini. E poi ci sono quelli che fanno un po’ più di rumore, che aprono discorsi, che scardinano abitudini. Marilena Barbera appartiene a questa seconda specie. È una donna del vino e una donna del pensiero. E il suo vino — come la sua voce — non si limita a raccontare un territorio: lo interroga, lo ridefinisce, lo tiene vivo. LEGGI TUTTO

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    Collio da uve autoctone: la forza di un’identità condivisa e il tempo ritrovato del vino bianco

    C’è un progetto che, senza grandi proclami sta cambiando il modo in cui guardiamo al vino bianco italiano. Un progetto nato dal basso, tra strette di mano e confronti sinceri tra produttori che credono nella forza di un’identità territoriale autentica. “Collio da uve autoctone” non è solo un nome su un’etichetta: è la dichiarazione concreta di un’idea di vino che rimette al centro il luogo, la storia e soprattutto il tempo.

    In un mondo del vino che ha spesso insegnato a pensare il bianco come prodotto di pronta beva, il Collio Bianco da uve autoctone dimostra invece che eleganza, complessità e capacità evolutiva possono convivere in un calice che sa parlare anche a distanza di anni dalla vendemmia. Anzi, è proprio dopo qualche anno che questi vini riescono a raccontare la loro verità più profonda, con sfumature che emergono grazie a un affinamento naturale e rispettoso, in bottiglia e nel tempo.

    Voci diverse, un solo territorio

    L’idea alla base del progetto è semplice e al tempo stesso dirompente: realizzare un vino bianco Collio DOC utilizzando esclusivamente le tre varietà storiche del territorio – tocai Friulano, ribolla gialla e malvasia istriana – le stesse che per decenni hanno modellato il paesaggio agricolo e la cultura contadina di queste colline. Un uvaggio tradizionale, certo, ma riscoperto con spirito contemporaneo, per dare vita a una tipologia chiara, riconoscibile e profondamente legata al luogo.

    A differenza di molte versioni di Collio Bianco realizzate con varietà internazionali (che il disciplinare pure ammette), qui si è scelto di fare un passo indietro come azienda per farne uno in avanti come collettività. Un vino corale, insomma, dove il territorio viene prima del brand, l’identità prima del marketing.

    Coltivare insieme un’idea

    Il seme del progetto è stato piantato tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 da Kristian Keber (Edi Keber), Andrea Drius (Terre del Faet), Fabijan Muzic (Muzic) e Alessandro Dal Zovo (Cantina Produttori di Cormòns). A loro si sono presto uniti Buzzinelli e Korsic, seguiti poi da La Rajade, Ronco Blanchis, Marcuzzi, Vigne della Cerva, Manià, con nuove adesioni già in arrivo. Insieme hanno dato vita a una vera e propria “linea” di Collio Bianco da uve autoctone, ciascuno con la propria interpretazione, ma tutti sotto un unico messaggio: riportare il Collio al centro della scena, non più come somma di stili aziendali, ma come espressione univoca di territorio.

    In questo senso, l’etichetta è tutt’altro che un dettaglio grafico: è un manifesto. Il nome “Collio” torna ben visibile, scritto grande, come si usava un tempo, quando bastava quella parola per evocare eleganza, longevità e personalità.

    Ma è nel calice che il progetto trova la sua massima forza espressiva: qui, più che altrove, si coglie come il bianco friulano possa – e debba – essere pensato su una scala temporale più lunga, abbandonando l’idea che solo il rosso meriti l’attesa.

    Sarebbe il caso che i produttori, soprattutto nei territori storicamente vocati ai bianchi, iniziassero a interrogarsi più seriamente su questo tema: nessuno mette in discussione la necessità di uscire con dei vini bianchi d’annata e di pronta beva, ma quando ci si trova di fronte a un bianco con un reale potenziale di invecchiamento, ha davvero senso immetterlo sul mercato dopo appena cinque mesi dalla vendemmia? I Collio Bianco da uve autoctone dimostrano che la risposta è no. Che il tempo è un ingrediente essenziale, non un ostacolo logistico. E che la longevità, oggi, può diventare un valore comunicabile anche per i bianchi. In questo, ristoratori e comunicatori hanno un ruolo fondamentale

    i quattro produttori che hanno dato vita al progetto

    Un messaggio che matura nel tempo

    Dietro al progetto non c’è un’associazione formale, né un disciplinare alternativo. Ma c’è una visione comune, forse ancora più forte. Un’idea di vino che si nutre di ascolto, dialogo e rispetto per la storia. Come ha detto Andrea Drius: «Avremo vinto quando si dirà “beviamo un Collio” e nessuno chiederà di che uva si tratta, ma tutti sapranno cosa aspettarsi».

    Non è solo una questione di stile. È un messaggio che va oltre la bottiglia, parla di coerenza, di scelte agronomiche consapevoli (le uve piantate dove rendono meglio, come si faceva un tempo), di valorizzazione del paesaggio, di orgoglio locale.

    E se oggi il Collio Bianco da uve autoctone può contare su annate invecchiate capaci di raccontare il potenziale espressivo di questi vini nel tempo, è anche perché qualcuno ha avuto il coraggio di investire sulla permanenza in cantina, sulla costruzione di memoria liquida, sull’educazione del palato. LEGGI TUTTO

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    Appius: dove il vino incontra l’arte e abita il tempo

    C’è un nuovo spazio nel cuore dell’Alto Adige, e non è solo una cantina: è una dichiarazione d’intenti, un gesto estetico, un invito alla contemplazione. La Cantina San Michele Appiano ha dato forma a un sogno che aveva preso vita più di dieci anni fa nella mente del suo storico enologo Hans Terzer: Appius, la cuvée simbolo di eleganza e visione, ha oggi il suo “tempio”.

    Inaugurata tra il 2023 e il 2024, la nuova cantina dedicata ad Appius è molto più di un luogo produttivo. È un ambiente immersivo, pensato per accogliere e raccontare, dove l’architettura si intreccia con la filosofia di un vino che guarda sempre avanti, ma senza mai perdere il senso del tempo. Un tempo lungo, profondo, fatto di affinamenti, di attese, di dettagli.

    Hans Terzer

    Il progetto, firmato dall’architetto Walter Angonese, si sviluppa a partire da spazi preesistenti, trasformati con rigore e sensibilità in una sala di circa 270 metri quadrati dominata da geometrie pulite e colori netti. Le pareti nere, rivestite in piastrelle ceramiche, dialogano con i riflessi caldi dei 14 serbatoi tronco-conici in acciaio satinato color bronzo: forme disegnate su misura, ispirate all’eleganza della bottiglia di Appius, ma con una funzione precisa – aumentare il contatto con i lieviti durante l’affinamento.

    Al centro, come un cuore silenzioso, una sala degustazione di 30 metri quadrati riceve la luce naturale da una finestra zenitale: qui, il contrasto tra il nero e il rovere chiaro racconta di equilibrio e profondità. Tutto intorno, le bottiglie delle annate precedenti disposte come opere d’arte: nero e oro, vetro e luce, tempo e materia.

    «Abbiamo voluto creare uno spazio che fosse ispirante – spiega Jakob Gasser, attuale enologo della cantina – dove il vino potesse dialogare con il tempo e con la bellezza, in modo discreto ma intenso».

    Appius. Arte. Amore. Alto Adige.

    Non poteva mancare il gesto artistico. Una volta terminato il progetto architettonico, è nata l’idea di rendere ancora più forte il legame tra estetica e vino attraverso un’opera d’arte. La scelta è ricaduta su Robert Pan, artista bolzanino noto per le sue creazioni astratte in resina e pigmenti. Il suo linguaggio visivo – stratificato, vibrante, luminoso – ha offerto la chiave per un racconto parallelo, una “traduzione” dell’anima di Appius.

    L’opera realizzata per la cantina è stata scomposta in dieci frammenti, diventati etichette in resina per un’edizione limitata e speciale di Appius 2019. Un connubio tra vino e arte contemporanea che va oltre la funzione e si fa esperienza sensoriale e culturale.

    In un mondo che spesso corre veloce, la nuova cantina di Appius è un invito a rallentare, ad ascoltare, ad assaporare. Un esempio raro di come l’architettura possa tradurre un’idea di vino in uno spazio vivo, dove ogni dettaglio – dai serbatoi alle luci, dalle bottiglie all’opera d’arte – racconta la coerenza di un’identità.

    Un’identità fondata su una convinzione semplice e assoluta, che a San Michele Appiano si tramanda da più di un secolo: la qualità non conosce compromessi. LEGGI TUTTO

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    Appius: dove il vino incontra l’arte e abita il tempo

    C’è un nuovo spazio nel cuore dell’Alto Adige, e non è solo una cantina: è una dichiarazione d’intenti, un gesto estetico, un invito alla contemplazione. La Cantina San Michele Appiano ha dato forma a un sogno che aveva preso vita più di dieci anni fa nella mente del suo storico enologo Hans Terzer: Appius, la cuvée simbolo di eleganza e visione, ha oggi il suo “tempio”.

    Inaugurata tra il 2023 e il 2024, la nuova cantina dedicata ad Appius è molto più di un luogo produttivo. È un ambiente immersivo, pensato per accogliere e raccontare, dove l’architettura si intreccia con la filosofia di un vino che guarda sempre avanti, ma senza mai perdere il senso del tempo. Un tempo lungo, profondo, fatto di affinamenti, di attese, di dettagli.

    Hans Terzer

    Il progetto, firmato dall’architetto Walter Angonese, si sviluppa a partire da spazi preesistenti, trasformati con rigore e sensibilità in una sala di circa 270 metri quadrati dominata da geometrie pulite e colori netti. Le pareti nere, rivestite in piastrelle ceramiche, dialogano con i riflessi caldi dei 14 serbatoi tronco-conici in acciaio satinato color bronzo: forme disegnate su misura, ispirate all’eleganza della bottiglia di Appius, ma con una funzione precisa – aumentare il contatto con i lieviti durante l’affinamento.

    Al centro, come un cuore silenzioso, una sala degustazione di 30 metri quadrati riceve la luce naturale da una finestra zenitale: qui, il contrasto tra il nero e il rovere chiaro racconta di equilibrio e profondità. Tutto intorno, le bottiglie delle annate precedenti disposte come opere d’arte: nero e oro, vetro e luce, tempo e materia.

    «Abbiamo voluto creare uno spazio che fosse ispirante – spiega Jakob Gasser, attuale enologo della cantina – dove il vino potesse dialogare con il tempo e con la bellezza, in modo discreto ma intenso».

    Appius. Arte. Amore. Alto Adige.

    Non poteva mancare il gesto artistico. Una volta terminato il progetto architettonico, è nata l’idea di rendere ancora più forte il legame tra estetica e vino attraverso un’opera d’arte. La scelta è ricaduta su Robert Pan, artista bolzanino noto per le sue creazioni astratte in resina e pigmenti. Il suo linguaggio visivo – stratificato, vibrante, luminoso – ha offerto la chiave per un racconto parallelo, una “traduzione” dell’anima di Appius.

    L’opera realizzata per la cantina è stata scomposta in dieci frammenti, diventati etichette in resina per un’edizione limitata e speciale di Appius 2019. Un connubio tra vino e arte contemporanea che va oltre la funzione e si fa esperienza sensoriale e culturale.

    In un mondo che spesso corre veloce, la nuova cantina di Appius è un invito a rallentare, ad ascoltare, ad assaporare. Un esempio raro di come l’architettura possa tradurre un’idea di vino in uno spazio vivo, dove ogni dettaglio – dai serbatoi alle luci, dalle bottiglie all’opera d’arte – racconta la coerenza di un’identità.

    Un’identità fondata su una convinzione semplice e assoluta, che a San Michele Appiano si tramanda da più di un secolo: la qualità non conosce compromessi. LEGGI TUTTO

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    Appius: dove il vino incontra l’arte e abita il tempo

    C’è un nuovo spazio nel cuore dell’Alto Adige, e non è solo una cantina: è una dichiarazione d’intenti, un gesto estetico, un invito alla contemplazione. La Cantina San Michele Appiano ha dato forma a un sogno che aveva preso vita più di dieci anni fa nella mente del suo storico enologo Hans Terzer: Appius, la cuvée simbolo di eleganza e visione, ha oggi il suo “tempio”.

    Inaugurata tra il 2023 e il 2024, la nuova cantina dedicata ad Appius è molto più di un luogo produttivo. È un ambiente immersivo, pensato per accogliere e raccontare, dove l’architettura si intreccia con la filosofia di un vino che guarda sempre avanti, ma senza mai perdere il senso del tempo. Un tempo lungo, profondo, fatto di affinamenti, di attese, di dettagli.

    Hans Terzer

    Il progetto, firmato dall’architetto Walter Angonese, si sviluppa a partire da spazi preesistenti, trasformati con rigore e sensibilità in una sala di circa 270 metri quadrati dominata da geometrie pulite e colori netti. Le pareti nere, rivestite in piastrelle ceramiche, dialogano con i riflessi caldi dei 14 serbatoi tronco-conici in acciaio satinato color bronzo: forme disegnate su misura, ispirate all’eleganza della bottiglia di Appius, ma con una funzione precisa – aumentare il contatto con i lieviti durante l’affinamento.

    Al centro, come un cuore silenzioso, una sala degustazione di 30 metri quadrati riceve la luce naturale da una finestra zenitale: qui, il contrasto tra il nero e il rovere chiaro racconta di equilibrio e profondità. Tutto intorno, le bottiglie delle annate precedenti disposte come opere d’arte: nero e oro, vetro e luce, tempo e materia.

    «Abbiamo voluto creare uno spazio che fosse ispirante – spiega Jakob Gasser, attuale enologo della cantina – dove il vino potesse dialogare con il tempo e con la bellezza, in modo discreto ma intenso».

    Appius. Arte. Amore. Alto Adige.

    Non poteva mancare il gesto artistico. Una volta terminato il progetto architettonico, è nata l’idea di rendere ancora più forte il legame tra estetica e vino attraverso un’opera d’arte. La scelta è ricaduta su Robert Pan, artista bolzanino noto per le sue creazioni astratte in resina e pigmenti. Il suo linguaggio visivo – stratificato, vibrante, luminoso – ha offerto la chiave per un racconto parallelo, una “traduzione” dell’anima di Appius.

    L’opera realizzata per la cantina è stata scomposta in dieci frammenti, diventati etichette in resina per un’edizione limitata e speciale di Appius 2019. Un connubio tra vino e arte contemporanea che va oltre la funzione e si fa esperienza sensoriale e culturale.

    In un mondo che spesso corre veloce, la nuova cantina di Appius è un invito a rallentare, ad ascoltare, ad assaporare. Un esempio raro di come l’architettura possa tradurre un’idea di vino in uno spazio vivo, dove ogni dettaglio – dai serbatoi alle luci, dalle bottiglie all’opera d’arte – racconta la coerenza di un’identità.

    Un’identità fondata su una convinzione semplice e assoluta, che a San Michele Appiano si tramanda da più di un secolo: la qualità non conosce compromessi. LEGGI TUTTO

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    Sicily on Wine: un racconto di vino, territorio e relazione

    Ci sono luoghi che sembrano fuori dal tempo, eppure ne custodiscono ogni battito. Luoghi dove la bellezza non è riparo, ma direzione. In Sicilia, tra i rilievi silenziosi dei Monti Sicani, la memoria non è solo un esercizio del ricordo: è sostanza viva delle cose, è paesaggio che respira, è gesto quotidiano. Qui, tra le pietre chiare di Chiusa Sclafani, le curve antiche di Sambuca, l’asprezza luminosa di una natura selvaggia, ogni cosa racconta chi siamo stati — e chi scegliamo ancora di essere.

    Perché i paesi non muoiono solo per lo spopolamento, ma quando chi resta smette di riconoscersi nello sguardo dell’altro, quando la memoria si sfilaccia fino a diventare estranea. E invece, in questi luoghi marginali solo in apparenza, si resiste. Si tiene viva la trama sottile della bellezza vera: non quella citata distrattamente come un mantra stanco, ma quella fatta di mani che lavorano la terra, di vino che racconta un territorio, di comunità che si ritrova intorno a un rito condiviso.

    Sicily on Wine nasce così, come un atto di cura. Non una celebrazione effimera, ma un tempo sospeso in cui cultura, paesaggio, lavoro e memoria si intrecciano per dire che sì, la bellezza può ancora salvarci — ma solo se sapremo, noi per primi, salvare lei.

    Ed è proprio in questa visione che ha preso forma la manifestazione: dieci buyer da sette Paesi e tre continenti, ventuno produttori siciliani, oltre duecento incontri B2B, tour nelle cantine e scoperta del territorio. Numeri che raccontano un progetto concreto, ma che da soli non bastano a spiegare l’energia che si è respirata tra le navate del seicentesco Monastero dei Padri Olivetani, a Chiusa Sclafani, dove si sono svolti gli incontri e le degustazioni.

    Organizzato da Sicindustria — partner di Enterprise Europe Network (EEN), la più grande rete europea a supporto delle PMI — insieme a WonderFood Communication, al Comune di Chiusa Sclafani e al Sector Group Agrifood, Sicily on Wine è stato pensato per restituire visibilità e prospettive alle piccole e medie realtà vitivinicole dell’Isola. Aziende spesso a conduzione familiare, con produzioni limitate — inferiori alle 100.000 bottiglie l’anno — che scelgono la via più lunga: quella della qualità, della sostenibilità, dei vitigni autoctoni.

    Monastero dei Padri Olivetani – Chiusa Sclafani

    Qui, tra un bicchiere condiviso e uno scambio di idee, le imprese siciliane hanno incontrato il mondo: buyer dal Canada alla Polonia, dalla Grecia all’India, e giornalisti di settore hanno ascoltato storie che profumano di terra e fatica, assaggiato vini che parlano con voce distinta del proprio luogo d’origine.

    I giorni di Sicily on Wine sono stati anche occasione di visite aziendali, degustazioni e incontri autentici: buyer e giornalisti sono entrati nelle cantine, hanno ascoltato storie familiari, scoperto i prodotti locali, che insieme compongono un mosaico vivo di relazioni.

    Sicily on Wine non è solo un evento: è un invito a tornare, a restare, a credere che la bellezza, quella vera, possa ancora essere una promessa mantenuta.

    Focus sui vini

    Che i vini siciliani godano oggi di ottima salute è fuori discussione. E non si tratta solo dei nomi più noti o delle grandi denominazioni: è nelle produzioni più piccole, rarefatte, spesso al di sotto delle centomila bottiglie annue, che si coglie la vitalità autentica del vino siciliano contemporaneo. Sicily on Wine ha dato voce proprio a questa realtà, mettendo in luce un panorama di altissimo livello, in particolare sul fronte dei bianchi – tra i più interessanti d’Italia e di respiro sempre più internazionale.

    Tra le degustazioni che hanno lasciato il segno, spicca il Sicilia Grillo DOC “Contravénto” di TerreGarcia, un bianco dalla personalità netta, così come il sorprendente vino rosa 2024 di Serra Ferdinandea, un nero d’Avola in purezza che ribalta gli stereotipi del rosato. Non mancano le bollicine, come il Perle di Grazia di Terre di Gratia, a conferma di quanto sia ampio e dinamico il ventaglio delle interpretazioni enologiche siciliane, ma l’elenco potrebbe continuare perché tutte le cantine presenti al Monastero dei Padri Olivetani hanno presentato referenze di livello assoluto.

    E poi ci sono i “geni liberi” – come Marilena Barbera, Francesco Guccione, Salvatore Tamburello – che con i loro vini sanno creare visioni e risonanze profonde. Produzioni che si sottraggono a qualsiasi standardizzazione e che ricordano cosa dovrebbe essere davvero il vino: un racconto sincero, coraggioso, capace di sorprendere. Guccione, in particolare, dimostra come un vino naturale possa essere fatto con eleganza, grazia e profondità, indicando una via alternativa e credibile rispetto a certa deriva modaiola del “naturale”.

    Il segreto del nuovo Rinascimento del vino siciliano risiede anche in una fiducia crescente nelle nuove generazioni. Giovani produttori, sempre più spesso donne, stanno riportando in primo piano concetti come sostenibilità, consapevolezza ambientale e rispetto del territorio, contribuendo a una trasformazione culturale che mette al centro la qualità, ma anche l’identità.

    Sicily on wine Buyer

    Quella della Sicilia è una rivoluzione che affonda le radici nel passato. Negli ultimi vent’anni, infatti, si è assistito a un grande lavoro di riscoperta e valorizzazione delle varietà autoctone: sono oltre cento i vitigni selezionati e catalogati, di cui almeno una ventina con potenziale qualitativo straordinario. Se il nero d’Avola è ormai un ambasciatore internazionale, accanto a lui si affermano vitigni come il nerello mascalese e cappuccio, il frappato, l’alicante, il perricone e la nocera. Sul versante bianco brillano nomi come inzolia, carricante, grecanico, catarratto, zibibbo, malvasia di Lipari e moscato di Siracusa.

    Questo straordinario patrimonio ampelografico – spesso ancora poco conosciuto – è parte integrante dell’identità culturale dell’isola, e racconta una Sicilia che non ha mai smesso di credere nella propria unicità. Chi ha scelto di rimanere, o di tornare, e di metterci la faccia, ha fatto scelte coraggiose: conversione al biologico, apertura all’enoturismo, nuovi linguaggi per comunicare il vino e il territorio.

    La Sicilia si candida così a essere, oggi più che mai, una delle regioni vinicole più espressive e interessanti del mondo. Un laboratorio a cielo aperto, dove si incontrano storia e sperimentazione, paesaggio e visione. Un’Isola del Vino che guarda al futuro con radici ben salde nella propria terra.

    I produttori presenti a Sicily on Wine LEGGI TUTTO